Da quando con le elezioni del 2013 si sono scongelate le appartenenze elettorali, i cicli della politica italiana bruciano leader ogni due anni. Qualunque sia la traiettoria di Conte e della maggioranza Pd-M5s nei prossimi mesi, Matteo Renzi ha avuto la conferma che il suo ciclo si è davvero chiuso: nel discorso in Senato ha dovuto ammettere che pochi hanno capito le ragioni della crisi, ha perfino dovuto rivendicare il diritto di parola nonostante il suo 2 per cento nei sondaggi. Sentire proprio da lui un’arringa sull’irrilevanza del consenso è bizzarro. Italia viva è un partito zombie, che in parlamento sembra vivo ma nel paese non lo è mai stato, la scossa della crisi fa sobbalzare un corpo politico comunque senza vita. Cosa Renzi abbia ottenuto non è chiaro. Se crediamo alla buona fede delle sue critiche alla gestione della pandemia e del Recovery plan – molte fondate, ha riconosciuto perfino il premier Conte – la scelta di uscire dal governo e renderlo più fragile non ha molto senso. Pare soltanto una riedizione della strategia dei pop corn annunciata a maggio 2018: allora si trattava di aspettare il disastro di Lega-M5s per poi tornare al potere. Ha funzionato una prima volta, ma l’idea che oggi Renzi possa preferire osservare il disastro da fuori – in piena pandemia e recessione – piuttosto che faticare per arginarlo da dentro è parsa a tutti troppo assurda o troppo cinica. Eppure il Recovery plan è davvero migliorato grazie alle osservazioni di Renzi e di Italia viva, il fatto che Conte ceda la delega ai servizi segreti favorisce l’equilibrio tra poteri, perfino la faticosa citazione dei morti da virus nel discorso di Conte è una conseguenza dell’intervento di Renzi. Ma il leader di Italia viva sembra uno degli eroi di certi film hollywoodiani che muore nella battaglia finale, in un sacrificio che a lui pare nobile e inevitabile ma che allo spettatore sembra soltanto un buco di sceneggiatura.