A chi appartiene lo spazio pubblico? La risposta parrebbe semplice: appartiene alla collettività, a tutti e tutte. Nella realtà le cose non stanno così, e le notizie delle violenze commesse a Milano in piazza del Duomo nella notte di capodanno son qui a ricordarcelo.

Le aggressioni inflitte ad almeno nove ragazze da un branco di giovani uomini, stranieri e italiani di seconda generazione, raccontano soprattutto questo: che alle donne è negato il pieno diritto ad abitare la città.

C’è chi ha trasformato la vicenda di Milano in una storia di rivalsa di classe, o di conflitto tra periferia e centro: giovani manovali in cerca di «una notte da padroni», ha scritto La Repubblica.

C’è chi invece, come la senatrice leghista Daisy Pirovano in un’interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, ha applicato il classico frame dello scontro di civiltà, parlando di «pervasività di talune culture che hanno radicalizzato una visione della donna fortemente discriminatoria».

I discorsi sull’integrazione dei giovani uomini migranti, o sul contrasto della marginalità sociale, non sono mai fuori luogo. Ma ridurre la materia a un problema di norme sull’immigrazione o di disagio delle periferie contraddice l’evidenza di comportamenti molesti e violenti del tutto simili messi in atto da uomini “nativi” e di ceto medio o elevato.

Basti ricordare il caso recente della giornalista televisiva Greta Beccaglia, palpeggiata da un tifoso durante il suo collegamento dalla partita Empoli-Fiorentina. Il responsabile si è scoperto essere un italianissimo ristoratore quarantenne.

La verità è che le strade, le piazze, i mezzi di trasporto non sono luoghi sicuri per le donne, ovvero non sono davvero pubblici, perché troppi uomini li vivono ancora come un’estensione spaziale del privilegio maschile, come territori di caccia ed esercizio di potere.

Cosicché le donne sono costrette ad apprendere, fin da piccole, insieme alla conoscenza del mondo, anche le regole esplicite o implicite, gli accorgimenti, le precauzioni più opportune da adottare, per attraversare gli spazi che abitano in comune con gli uomini. Pierre Bourdieu ha chiamato «l’arte di farsi piccola» questa educazione della fanciulla, tutta volta all’imposizione di limiti.

L’ultimo potere rimasto

Il fatto che ragazzi senza-potere, che vivono ai margini, mettano in scena in gruppo la propria virilità con l’aggressione sessuale mostra che quello sulle donne è l’unico potere che ogni uomo può sentirsi in diritto di esercitare, indipendentemente dalla propria sua situazione economica e sociale.

E il fatto che i comportamenti di giovani stranieri o di «un’altra cultura» somiglino tanto a quelli dei nostri connazionali dovrebbe aiutarci a mettere in discussione l’idea della superiorità della «nostra cultura».

La senatrice Pirovano ha menzionato il problema di quei ragazzi con genitori che «a casa danno insegnamenti non in linea con i nostri valori». Ma quali sono questi valori? E in che senso li possiamo chiamare «nostri»?

La cultura dei diritti, dell’eguaglianza di genere e del rispetto delle differenze, spesso evocata in contrapposizione a quelle dei migranti, è lungi dal poter essere considerata «nostra»: è piuttosto quell’insieme di valori che cerca, attraverso un continuo conflitto, di far avanzare relazioni nuove, libere, tra uomini e donne, vincendo la resistenza di una radicata mentalità sessista.

Sono le idee che dovrebbero ispirare un vero programma di educazione di genere nelle scuole – che ad oggi, però, è ancora inesistente. Allora il problema non è «limitare gli ingressi» ma impegnarsi in politiche efficaci per la prevenzione della violenza.

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