I numeri sono ancora in evoluzione ma alcuni punti fermi ci sono. Il primo, ovviamente, è la vittoria del centrodestra con l’affermazione di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia che si mangiano gli altri partiti dello schieramento.

Io crollo della Lega, a livelli della metà del 2018 e un quarto rispetto alle europee del 2019, mette fine al ciclo di Matteo Salvini, vedremo se anche alla sua segreteria.

Sembra improbabile che a questo punto Salvini possa andare al ministero dell’Interno, visto il suo scarso peso nella coalizione e l’ancora inferiore affidabilità internazionale per le posizioni troppo filorusse.

La fragilità della Lega, per effetto del declino di Salvini, diventa anche la prima (e al momento unica) incertezza di breve periodo nel governo di centrodestra che si prepara.

Silvio Berlusconi ha resistito all’ennesima prova che poteva certificare la sua estinzione, prende ancora più voti del Terzo Polo (che terzo non è affatto) di Matteo Renzi e Carlo Calenda.

Fin qui tutto abbastanza lineare, niente di drammaticamente diverso da quello che dicevano i sondaggi nelle scorse settimane (a parte il crollo di Salvini più verticale del previsto).

Nel centrosinistra il primo esito del voto solleva molte più domande. L’assenza di una coalizione larga ha condannato alla sconfitta inevitabile, visto il meccanismo dei collegi uninominali.

Si può discutere di chi siano le effettive responsabilità della mancata alleanza, di sicuro un solo leader se ne è rammaricato, il segretario del Pd Enrico Letta, mentre altro due hanno visto la corsa solitaria come una opportunità: Giuseppe Conte dei Cinque stelle e Carlo Calenda di Azione.

Conte è quello che ne ha tratto il maggior beneficio. Calenda un po’ meno.

Nel 2018 Matteo Renzi ha lasciato la segreteria del Pd con un risultato analogo a quello di Enrico Letta di oggi, in una elezione che però ha visto oltre il 9 per cento di votanti in meno.

Nessun dirigente del Pd può dichiararsi estraneo a questo declino, visto che tutte le scelte di Letta sono state sempre ampiamente condivise.

Letta certo non ha condotto una campagna elettorale utile davvero a sfidare Meloni, molti i suoi errori personali. Ma sia lui che tutti gli altri vertici del Pd, così come quelli di M5s e Azione si confrontano con la stessa consapevolezza sistemica: se le forze alternative alle destre sono divise, non hanno speranze.

In altre parole, la vittoria della destra è una scelta tanto degli elettori quanto dei suoi avversari.

Chiedere le dimissioni di Letta non cancellerebbe questa evidenza.

La domanda, dunque, adesso è come gestire una fase nuova. Il rischio è di competere per il “dividendo dell’opposizione”, quel vantaggio dell’assenza di responsabilità che ha portato Fratelli d’Italia dal 4 a oltre il 20 per cento.

La grande differenza con le stagioni delle grandi coalizioni, è che con il governo Draghi finisce una stagione post-ideologica o a-ideologica.

Al governo ora va la destra, non una coalizione populista o una squadra di tecnici.

Questo significa che l’opposizione non può essere soltanto di mero dissenso, più o meno dialogante.

Contro la destra o rinasce una nuova sinistra, oppure una opposizione frammentata farà soltanto il gioco di Meloni e alleati.

E una nuova sinistra deve includere tutti, dal Pd ad Azione a Sinistra italiana ai Cinque stelle (e una sinistra seria non può guardare con disprezzo a chi ha bisogno di un sussidio come il reddito di cittadinanza per sopravvivere).

I tecnici hanno fatto rinascere la destra. Ora la destra potrebbe far rinascere la sinistra.

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