L’offerta da 11 miliardi di Iliad per le attività di Vodafone in Italia (per ora rifiutata) è l’ennesimo segno della necessità di riorganizzazioni, fusioni e ristrutturazioni per fermare il declino delle telecomunicazioni europee. Questo vale per tutti e, a maggior ragione, per Tim.

Le telco gestiscono l’infrastruttura che trasporta il segnale digitale e commercializzano l’accesso alle reti (fisso e mobile): il segmento meno remunerativo delle comunicazioni.

A monte, i fornitori di contenuti rappresentano la componente della domanda a crescita esponenziale che, oltre a trattenere gran parte del valore della comunicazione digitale, impongono alle telco i massicci investimenti nelle reti necessari a sostenere la quantità e qualità della trasmissione dei contenuti.

Già oggi i social, giochi e video streaming assorbono 70 per cento della capacità di trasmissione, un trend destinato ad accelerare con le applicazioni nel metaverso o con i mercati di Nft (Non Fungible Tokens).

A valle, per la tecnologia di accesso e per il funzionamento delle reti, le telco hanno come controparte i colossi della tecnologia, a cominciare da Apple (la più grande società al mondo, con 2.800 miliardi di capitalizzazione, più del Pil della Francia). E offrono al pubblico prodotti e servizi omogenei dove la concorrenza è possibile solo sui prezzi (a danno dei margini) in un mercato frammentato a causa della regolamentazione comunitaria che impone quattro operatori in ogni paese (Iliad è venuta in Italia quando la regolamentazione ha imposto di liberare frequenze come condizione per la fusione tra Wind e Tre).

In Italia il problema è aggravato dalla bassa crescita: un cliente acquisto da una società diventa così un cliente perso da un’altra.

Ridurre la concorrenza

La regolamentazione europea è il risultato della liberalizzazione del settore che, forzando la concorrenza fra molti operatori, ha rotto il monopolio dell’azienda di stato che prevaleva in ogni paese. E’ stato un grande successo.

La situazione di mercato però è drasticamente cambiata: la concorrenza ha eroso i margini al punto che le telco non riescono a generare risorse sufficienti all’espansione e al miglioramento delle reti, e a remunerare adeguatamente il rischio che questi investimenti comportano.

E’ una delle ragioni perché l’Europa è il fanalino di coda nel 5G; inoltre prima ancora di investire nella nuova rete devono finire di pagare l’acquisto delle frequenze. Secondo il Sole 24 Ore, le quattro società telefoniche italiane dovranno pagare allo Stato italiano entro il 30 settembre l’ultima rata da 4,8 miliardi per frequenze 5G costate un totale di 6,6 miliardi. Sarà una coincidenza ma nel Pnrr, l’Italia ha destinato 6,7 miliardi di contributi per le reti ultraveloci (banda larga e 5G).

La strada è segnata ed è quella degli Stati Uniti dove la concorrenza è garantita da appena tre società per tutto il paese. L’offerta di Iliad per Vodafone in Italia va in quella direzione ed è apparentemente in linea con quanto chiede al mangement di Vodafone un fondo suo azionista (Cinven): vuole che la società si concentri sui mercati redditizi (dopo l’uscita da Francia e Usa opera ancora in 21 paesi) e per questo si fonda con altri operatori nei vari mercati.

Una strada parzialmente avviata con la fusione delle reti mobili: Vodafone e Tim con InWit; WindTre e tante straniere in Cellnex; ancora Vodafone (Vantage Towers) probabilmente in Germania con DTelekom.

Bilanciare gli interessi

La regolamentazione deve ora adottare un approccio dinamico perché un’eccessiva concorrenza beneficia i consumatori di oggi, ma può ridurre gli investimenti che avvantaggerebbero i consumatori di domani.

È la stessa logica dei brevetti: la competizione è temporaneamente sospesa per incentivare investimenti benefici per i consumatori che altrimenti non si farebbero.

 Anche perché la strada che passa dalla produzione di contenuti è stata tentata senza successo: At&t che più di altri ci aveva creduto, ha scisso la Warner per fonderla con Discovery; BT sta facendo lo stesso per i diritti sportivi con una joint venture con Discovery; la fusione della controllata inglese di Telefonica con Virgin Media non ha risolto i problemi della partecipata; e l’accordo di Tim con Dazn è stato economicamente un flop.

 Le telco non hanno i mezzi per competere, non solo coi nuovi giganti Netflix e Prime Video, ma anche con le vecchie major che dal cinema entrano massicciamente nello streaming: Disney con Hulu e Disney +; ViacomCbs (ora Paramount) con Paramount +; Warner-Discovery con HBO Max; e Comcast che oltre a Sky, DreamWorks, Universal Studio e Nbc ora offre lo streaming con Peacock.

Che succede sul cloud

Stessa situazione per il cloud, dove le barriere dimensionali all’ingresso sono ancora più elevate: i leader Amazon e Microsoft hanno ricavi in questo segmento stimati per quest’anno in oltre 80 miliardi, e una crescita attesa del 40 per cento. La stessa Google insegue con “appena” 20 miliardi di ricavi nel cloud, nel quale investe massicciamente pur essendo ancora in perdita, perché lo considera strategico.

Come Tim possa competere nel cloud non mi è chiaro. Certamente usufruirà del vantaggio della nazionalità per offrire agli enti locali e pubbliche amministrazioni i servizi connessi al cloud dei dati pubblici per i quali il Pnrr stanzia 1 miliardo (3 giorni di ricavi di Amazon). Ma la tecnologia sottostante sarà made in Usa.

La soluzione italiana per il settore delle telco è, come sempre, la mano pubblica. Oltre al miliardo per il cloud, e gli stanziamenti per 5G, scuole e ospedali, ci sono i 3,7 miliardi di contributi del Pnrr per la connessione veloce di 6,7 milioni di numeri civici che andranno alle telco (e anche a OpenFiber, dello Stato, da rimpolpare prima della fusione con la rete di Tim).

Poi ci sono i nuovi clienti tra quelli connessi a spese dello Stato che vorranno sottoscrivere un abbonamento alla banda larga: se solo 2 utenti per ogni civico connesso coi soldi del Pnrr sottoscrive un nuovo abbonamento da 30 euro al mese sono 5 miliardi all’anno di ricavi in più per le telco.

La rete unica

C’è poi il progetto per la rete unica, che diventando monopolio a controllo pubblico avrà una redditività stabilita dalla regolamentazione. Ed è facile ipotizzare che lo Stato regolatore sarà generoso con lo Stato azionista; il che spiega l’interesse di fondi come Macquarie, partner di OpenFiber e KKR in Fibercop di TIM, futuri soci della rete unica. Le più favorevoli condizioni di mercato che lo Stato in vario modo crea per il settore spiega anche l’interesse di Iliad per Vodafone o l’offerta a suo tempo di KKR per Tim.

Il progetto per la rete unica che lo Stato promuove con Cdp e OpenFiber risolverà anche il problema del debito eccessivo di Tim, che in gran parte potrà essere deconsolidato nella nuova società, e del costo del personale, che in parte verrà conferito con la rete e in parte ridotto con i prepensionamenti (8000 secondo una indiscrezione di Bloomberg); speriamo senza aggravio per le finanze pubbliche.

Del destino di Tim Brasile, che nel processo di ristrutturazione di TIM in Europa c’entra ben poco, non è dato a sapere.

Il lento avvio di un processo di riorganizzazione delle telco in Europa, la probabile rinuncia da parte del regolatore al vincolo dei quattro operatori, la rete unica e i soldi pubblici in Italia, fanno intravvedere la fine del lungo declino di Tim e del settore in generale.

Ma è illusorio pensare che questa sia la vigilia di nuovo periodo di espansione. Né vedo grande entusiasmo tra gli investitori.

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