Allora ditelo, burocrati europei, che lottate contro il governo: ma come, la premier Meloni ha appena incolpato i governi precedenti per le ristrettezze di bilancio che le impediscono di mantenere le promesse pre-elettorali e la presidente della Commissione Ue, von der Leyen che fa? Proprio a Mario Draghi, predecessore di Meloni, affida il rapporto sulla competitività dell'Unione?

È un boicottaggio, quasi anche Draghi avesse ereditato bilanci senza spazi di manovra! Certo, da burocrate non eletto, non aveva promesse da mantenere; fortuna che un rassemblement national senza precedenti, poco più d'un anno fa se lo levò di torno. E ora Bruxelles ce lo ripropone.

Come il reprobo Paolo Gentiloni, indicato da Roma ma non prono ad eseguirne i desideri, anche Draghi remerà contro; dirà di doversi far carico del futuro della Ue, non della sopravvivenza della coalizione. Al soldo della finanza internazionale, riproporrà le sue ricette per la crescita: concorrenza, liberalizzazioni, equità, lotta all'evasione, rispetto della legge, nel mito dell'efficienza. Ci mancano gli statisti come Arnaldo Forlani; ai giornalisti che gli rinfacciavano il mancato rispetto di importanti scadenze, ribatté: «Ci si chiede un'efficienza di tipo prussiano».

I burocrati brussellesi odiano le specificità nazionali, per le destre mantra immutabile dalla Vistola all'Atlantico. La fake news per cui i dipendenti della Ue sarebbero un terzo meno di quelli del Comune di Roma, partecipate incluse, non celi i rischi d'una Ue debordante.

Von der Leyen ha pure insistito sui triti luoghi comuni della Ztl; l'importanza degli equilibri di genere, il «diritto di amare chi si ama» (la mano del generale Vannacci correrà alla fondina della pistola), la rule of law (con tanti saluti a Varsavia), la marcia verso l’«Unione sempre più stretta» pensata a Ventotene da tre bislacchi sognatori, Colorni, Rossi e Spinelli. Oggetto questa dell'ironia del braccio destro di Meloni, Alfredo Mantovano, per cui la Ue imporrebbe il colore dei fiori da piantare in giardino.

Chi ha occhi così acuti da vedere in Giorgia Meloni l'affidabile capo d'una democrazia liberale, leggerà compiaciuto quanto dice sui disegni di sostituzione etnica, concepiti anche per lei dal famigerato miliardario ebreo, George Soros; peccato solo che non ne disegni l'adunco profilo.

Così essa dice, intervistata da Alessandro Sallusti, sulla predilezione della sinistra per il melting pot, o miscuglio delle genti (ma il padre nobile, Giorgio Almirante, non avrebbe esitato a parlar di razze, argomento su cui era invero ferrato): per lei la sinistra «preferisce un migrante africano a uno moldavo...perché il moldavo, in quanto europeo, è troppo affine alla nostra cultura. E dunque non è funzionale al disegno di mescolare il più possibile per diluire.

È molto più funzionale a questo disegno il migrante africano». Sotto l'incalzante periodare sallustiano, Meloni addita i fini del turpe progetto: ”Snaturare l'identità delle nazioni e rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori”. Scopriamo così che i malvagi trafficanti di esseri umani non sono che esecutori. Perché allora non perseguire, su tutto il globo terracqueo, anche i mandanti, la sinistra mondiale e il demoniaco Soros?

Ad evitare furenti lettere al giornale, avviso: sto facendo dell'ironia, facile certo, ma questo passa il convento. Resta da aggiungere che von der Leyen, forse interessata a un nuovo mandato, ha descritto i successi delle Ue in toni troppo elegiaci.

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