Gli Imagine Dragons cantano “whatever it takes” come un inno all’adrenalina. C’era adrenalina nei mercati che, dieci anni fa, portarono l’euro sul punto di spezzarsi, con la reintroduzione delle monete nazionali. La moneta unica era incompatibile con tassi di interesse troppo diversi fra i paesi dell’eurozona. Il 26 luglio 2012, Mario Draghi, allora presidente della Bce, annunciò il suo famoso “Whatever it takes” (d’ora in poi: Wit): avrebbe fatto tutto il necessario a preservare l’euro.

Non disse che cosa, ma i mercati compresero che si sarebbe trattato di un sostegno ai prezzi dei titoli di Stato dei paesi più indebitati, fra i quali l’Italia.

Bastò la sua parola, senza alcun intervento concreto: le differenze fra i rendimenti dei titoli dei diversi paesi (gli “spread”) si ridimensionarono abbastanza velocemente. È importante ricordare il decennale del Wit anche perché, dieci anni dopo, si torna a parlare di possibili “scudi anti-spread”.

Il rischio di ridenominazione

Lo spread di un paese più indebitato nasce dal fatto che, per invogliare i mercati a comprare una gran quantità dei suoi titoli, occorre promettere un rendimento maggiore. Ma prima del Wit c’era un eccesso di spread che cercava di compensare gli acquirenti da un rischio particolare e grave: vedersi rimborsare i titoli in una rinata moneta nazionale anziché in euro, creata in grandi quantità e rapidamente svalutata.

Quando i mercati si attendono un simile salto nel buio è difficile stabilire un limite al rialzo dello spread, che tende poi a estendersi con conseguenze traumatiche all’insieme del mercato finanziario e ai tassi bancari.

Lo spread fra i titoli italiani a 10 anni e quelli tedeschi aveva superato i 500 punti dopo la ripidissima salita dai 150 della primavera 2011.

L’annuncio di Draghi eliminò il “rischio di ridenominazione” e dimezzò lo spread in pochi mesi. Solo in settembre del 2012 la Bce annunciò le caratteristiche dello scudo anti-spread: le cosiddette Outright monetary transactions (Omt): acquisti illimitati dei titoli di Stato con spread eccessivi. Gli acquisti avrebbero aumentato i prezzi dei titoli e ridotto il loro rendimento.

Perché la Bce acquistasse i titoli di un singolo Paese era però richiesto che questo firmasse un accordo con il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) mirante a contenere il fabbisogno del governo con un programma concordato e controllato anche dal Fmi.

Ma le Omt non vennero mai attivate poiché gli spread scesero per l’effetto della credibilità dell’annuncio sulle aspettative degli speculatori.

L’aspetto politico

Il Wit ebbe un aspetto tecnico e uno politico. Sul piano tecnico si trattò di un annuncio, credibile e  tempestivo, giustificato dichiarando che la banca centrale riteneva suo compito statutario difendere l’integrità della moneta comune.

Poiché le Omt si sarebbero limitate a scremare gli spread da quella parte che non poteva giustificarsi con la dimensione relativa del debito dei Paesi, non avrebbero esorbitato dai compiti della politica monetaria, non avrebbero avuto il contenuto fiscale di un trasferimento di reddito dai paesi frugali a quelli con maggiori deficit pubblici, proibito dai Trattati.

Ciò era garantito anche dall’accordo richiesto col Mes, che costituiva il profilo politico dell’operazione. La decisione di Draghi fu infatti preceduta da un intenso lavoro diplomatico.

Occorreva evitare una contraddizione, rilevante nel caso italiano. Nella misura in cui un paese rispettava le regole del Patto di Stabilità e Crescita, che disciplinava i bilanci pubblici e ne prescriveva l’aggiustamento, avrebbe dovuto presumersi garantita la sua disciplina e confermato il fatto che il suo eccesso di spread originava da speculazione ingiustificata.

Perché chiedere un impegno aggiuntivo con il Mes? Va ricordato che già allora il Mes – o meglio, il Fondo “salva Stati” diventato Mes proprio nel 2012 – aveva una cattiva reputazione soprattutto per il modo, brutale e gravemente recessivo, con cui aveva gestito la crisi greca.

Superando l’opposizione dei Paesi più “austeri” come la Germania, l’intervento della Bce sarebbe rimasto entro i limiti tecnici della politica monetaria anche senza bisogno del Mes.

Un momento importante del lavoro politico fu il Consiglio europeo che precedette di un mese il Wit, il 28-29 giugno 2012. In esso il premier italiano Mario Monti, come riferì al Parlamento nei giorni successivi, insieme al premier spagnolo, mise il veto alle diverse conclusioni già concordate per ottenere il varo di provvedimenti di stabilizzazione dei mercati finanziari.

Fra questi vi fu la decisione che gli interventi di supporto del Mes usassero «strumenti flessibili ed efficienti per stabilizzare i mercati dei titoli di quei paesi che rispettino le Raccomandazioni della Commissione, il Patto di Stabilità e Crescita e la Procedura per gli squilibri macroeconomici».

Veniva cioè stabilita una distinzione fra il trattamento dei paesi che violavano il Patto e quelli che lo rispettavano.

Su questa base si sarebbe potuto sostenere che l’accordo col Mes per le Omt ai paesi rispettosi del Patto non chiedesse altro che la continuazione di tale rispetto, vigilato dalla Commissione.

Ciò rivestiva particolare importanza per l’Italia e con essa per l’intera eurozona, dato che era soprattutto lo spread italiano a far temere il peggio per l’insieme dell’unione monetaria.

In nostro disavanzo pubblico nel 2012 stava rientrando nel limite del 3 per cento del Pil richiesto dal Patto, con politiche severe che, al netto degli interessi, davano un avanzo primario di quasi il 3 per cento.

La possibilità di beneficiare dello “scudo anti-spread” senza inasprire ulteriormente la politica economica era anche un giusto incentivo a continuare sulla strada dell’aggiustamento. Fu su questa base politica che Draghi si sentì in grado di annunciare il Wit e le Omt.

Un nuovo scudo, oggi?

In che misura il tema dello “scudo anti-spread” che si ripresenta oggi può far tesoro delle decisioni e dell’esperienza di dieci anni fa?

Si stima che anche oggi i mercati prezzino un rischio di ridenominazione. Il premio per questo rischio non è grande: per i titoli del nostro Tesoro a 10 anni giustifica circa 50 punti base dello spread.

È però molto reattivo, anche all’incertezza politica: dopo le elezioni del 2018 è stato per diversi mesi sopra i 100 punti. Non si tratta comunque di dimensioni tali da giustificare, per ora, speciali interventi della Bce.

Comprimere indebitamente il costo del nostro debito oggi avrebbe anche l’effetto indesiderato di ridurre lo stimolo a contenere il deficit dato dalla politica monetaria meno permissiva.

La cosiddetta “frammentazione” dell’eurozona è oggi dovuta, più che agli spread, all’incompletezza dell’unione bancaria che rende un euro diverso a seconda della nazionalità della banca dov’è depositato. Non è detto che serva davvero uno scudo.

D’altra parte in caso di emergenza, l’uso dello scudo esistente, le Omt, urterebbe contro la crescente avversione al Mes. La quale si è manifestata in modo impressionante in tutta l’eurozona quando nessun Paese ha voluto accedere al generosissimo finanziamento incondizionato delle spese sanitarie predisposto nel pacchetto di misure anti-pandemiche.

Inoltre, fino a quando non verrà reintrodotto il Patto di Stabilità, debitamente riformato, mancheranno i punti di riferimento per contrattare le condizioni di politica economica che la Bce non può fare a meno di richiedere per intervenire sullo spread di singoli Paesi.

Oggi il condizionamento potrebbe basarsi sul rispetto dei Pnrr e dei piani finanziari pluriennali regolarmente condivisi dai Paesi con Bruxelles. Ma ciò viene forse considerato troppo indulgente dalla maggioranza del Consiglio.

Sarebbe auspicabile che, per gestire le inevitabili emergenze, col nuovo Patto venga disegnato anche un nuovo scudo anti-spread, con un condizionamento gestito unicamente dalla Commissione.

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