Questo che pubblichiamo è un estratto da Storia di μ. Ovvero Lorenzino don Milani di Alberto Melloni (Marietti1820, 2023), una biografia corredata da una selezione di immagini di Lorenzo Milani dall’archivio di famiglia, da alcuni scatti di un giovanissimo Oliviero Toscani in visita a Barbiana e dai versi di Fabrizio De André. Alberto Melloni è socio linceo e ordinario di Storia del cristianesimo, è il massimo specialista dell’argomento: ha diretto l’opera omnia di Lorenzo Milani pubblicata nei Meridiani Mondadori nel 2017.

Storia di μ rende omaggio al priore di Barbiana nell’anno in cui si festeggiano i 100 anni della sua nascita «non per farne la biografia critica che ancora manca, ma per sfogliare la vita e le immagini di una vita: un invitatorio alla lettura della sua parola, della sua figura, senza attualizzazioni superficiali, lasciando tutta la distanza fra quel presente, altro dal nostro, che era il suo», scrive Alberto Melloni.

È possibile approfondire la vita e il pensiero di Lorenzo Milani anche attraverso le Duecento lettere, raccolta a cura di Adele Corradi, Federico Ruozzi e José Luis Corzo (EDB, 2023), in cui sono state selezionate quelle più incisive per stile e tematiche tra le oltre mille conosciute. (Beppe Cottafavi)


L’eccedenza e la dualità

Chi si chini sulla scrittura di μ si accorge, spesso senza sapere il come o il perché, di essere davanti a un uomo a cui eravamo e siamo estranei per l’eccedenza della sua personalità e della sua cultura: che nel narrare e nel narrarsi diventa l’irrinunciabile maieuta di sé e del mondo. Come Qoelet, μ non deve cercare Dio per dire qualcosa di assoluto, ma cerca nell’assoluto della miseria umana e lì è trovato da Dio, perché solo su quelle macerie dell’umano umiliato, per dirla con Walter Benjamin, il vento messianico s’impiglia fra le ali dell’angelo della storia e lo risucchia verso un domani che noi chiamiamo pateticamente progresso.

Ma ancor prima che lo si percepisca così anche lui, μ è un estraneo. L’ebreo non praticante che fa «indigestione di Cristo», come dirà di lui la sua seconda madre, don Raffaele Bensi; il rampollo di un’aristocrazia intellettuale raffinata che si improvvisa maestro; il condottiero rivoluzionario che vuole rovesciare l’impianto ideologico della scuola; il diapolitico che scopre nel percorso latamente autoritario del sistema scolastico, in cui il potere adulto istruisce l’infanzia al fatalismo di classe col risultato di confondere «processo e sostanza» (secondo la lezione di Ivan Illich nel 1971); l’artista convinto che per smascherare l’inganno costitutivo del potere e restituire la sovranità a una manciata di subalterni inafferrabili alla dogmatica marxista allora imperante bisogna fare del proprio corpo una realtà diversa; l’intellettuale che pratica per loro la traditio verbi e, da «traditore» del proprio ceto, consegna loro la parola portandoli e cercandoli su un mitico Sinai del crinale appenninico – tutto μ sta davanti al mondo di allora e al mondo di oggi come un estraneo. Un’estraneità che fa usare a chi lo ha amato espressioni e metafore che cercano vanamente di significar per verba la scintilla messianica che non cancella il buio, ma ne interrompe l’onnipotenza.

Insieme, però, μ ha in sé – e perciò nella sua scrittura – qualcosa che non smette di intrigare. Intriga lo stuolo di spacciatori di didattica che non avrebbero trovato alcuna pietà in μ. Intriga i narcisi che si credono iscritti di diritto all’albo d’oro dei «milaniani» solo per aver dedicato qualche briciolo di tempo al male del mondo che s’arena sul litorale scolastico. Intriga i pretini di mezz’età che han creduto che l’insofferenza per un vescovo mediocre o le frustrazioni intellettuali che li hanno portati verso agriturismi spirituali del cristianesimo enogastronomico bastassero ad affratellarli al tizzone ardente e bruciato – davvero ardente e davvero bruciato – che fu μ.

Bisogna allora lasciarsi portare da quella scrittura che parla ai muti in un altro presente e in un’altra esistenza. It’s history, stupid, si dirà. Certo: il mestiere dello storico è visitare altri presenti senza l’arroganza del turista, con nulla da di-mostrare, ma con la speranza di sapere almeno mostrare con casta discrezione e pudore le impressioni che lo studio delle fonti suscita in lui, così insegnava Hubert Jedin.

Ebbene quando questo mestiere si applica a μ, affiora qualcosa che deriva la sua conoscibilità puntuale dalla materialità della cosa: μ che si consegna nella scrittura fa emergere le ipotesi fallite di rinnovamento di un paese malato, i tentativi frustrati di riforma della chiesa, l’utopia ritornata per altre vie nella primavera bergogliana di un cristianesimo vissuto cum Lazaro quondam paupere, il sogno di una «sinistra» (sic) liberata dal conformismo snob e da tic piccoloborghesi che le anime più sensibili sentivano già nella stagione staliniana e post-staliniana.

Dunque per capire μ bisogna aver chiaro che la polarità fra vicinanza e distanza, che il lettore sente in sé, non è solo sua. È una dualità/duplicità che appartiene a μ e alla sua vita. Essa infatti è percorsa da una teoria lunghissima di bipartizioni verticali e orizzontali, che dividono in due il suo tempo e la sua esistenza.

Non siamo in presenza di un «doppio» castrante: ma di una fessurazione moltiplicatrice, che fa spazio a ciò che è altro come a una nostalgia, che trova nelle banalità della vita pretesca – il livore delle invidie, la volgare prepotenza dell’autorità, la profondità di affetti esaltati dall’incavo esistenziale del celibato – una ragione ulteriore assoluta. La persona di μ diventa grazie alla scrittura il luogo di un’unificazione necessaria, dolorosa, umanissima: ed è questa la ragione del perdurante e in sostanza insopprimibile interesse per la sua scrittura. Quella di μ è infatti una vita breve dentro una storia breve.

Nasce, μ, nell’Italia che si è consegnata al fascismo da poco, e poco dopo l’uscita dei popolari di Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi dal primo governo Mussolini; muore prima che il Sessantotto faccia di un numero un mito. La sua esistenza, vissuta a valle dell’olio di ricino e a monte del maggio francese si snoda così per metà dentro il regime fascista e la cappa di autoritarismo che affila le coscienze degli indocili e appaga il conformismo di chi si fa andar bene tutto. L’altra metà della sua esistenza μ la passa dentro l’Italia democristiana, quella che ha deluso le attese di una palingenesi sociale e partorito, nel perdurare dei ceti dirigenti e del conformismo politico, quel tanto di democrazia dalla quale grandi intelligenze si sforzano di spremere tutta la libertà di una società con risultati che il pessimismo della ragione obbliga a dir buoni.

Dentro questa partizione diacronica del tutto estrinseca, decisa da un linfoma che il 26 giugno 1967 conclude un decorso iniziato con la diagnosi di sei anni prima, stanno infine altre dualità – quelle sincroniche.

La dualità del prete

μ è un prete spaventosamente normale. Fa la vita che ha cercato – essa è simile a quella di tutti i chierici celibatari vissuti nei quattro secoli di ciò che si può definire l’età del prete – come uomo costituito in autorità da un meccanismo che consente – quello sì – alle classi subalterne di diventare classi dirigenti e che apre una via inattesa di vita interiore a ragazzini di fatto oblati al seminario minore per un percorso di studio, disciplina e pietà che in quei secoli è altamente selettivo e che quando smette di esserlo sancisce la fine irreversibile di quell’età.

Come tutti i preti, μ ha un rapporto strettissimo con la mamma; come tanti preti, ha un rapporto difficile con l’autorità ecclesiastica, ignara che la grande repressione antimodernista con cui il papato ha decerebrato il clero, specie italiano, ha di fatto gettato le basi per la nascita di un nuovo episcopato, privo del principesco autoritarismo del monarca intronizzato nella diocesi «sua», e incapace di guadagnare autorità nella società pluralista se non pietendo visibilità mediatica o ruffianando la politica.

Al tempo stesso la sua è una vita da prete del tutto singolare. In anni nei quali un discreto numero di preti è in tutt’altre faccende affaccendato rispetto al superimpendar pro animabus, μ sembra che indossi la talare solo per dichiarare la propria estraneità a tutto il mondo che lo ha partorito. Lui che non aveva bisogno di ascesa sociale né tantomeno di cultura, avendone respirata solo di alta e raffinatissima, si piega a una formazione teologica mediocre, che sdrammatizza con un ricorso volontaristico al registro autoironico.

Stando «zitto in latino», come si fa in seminario, rimane a distanza di sicurezza dalla nouvelle théologie che ossessiona il Sant’Ufficio – l’organo definito senza iperbole da una delle sue vittime diventata da vecchio cardinale, Yves Congar, la «Gestapo» della chiesa: μ non si accorge che è proprio per il ricorso implicito e quasi inconsapevole a un principio induttivo, che è il marker di quella teologia e che lui applica al territorio dove tirocina come cappellano del vecchio don Pugi, che fornirà all’occhiuta vigilanza romana la ragione per isolarlo e per tentare di «scomunicarlo» dal corpo di Cristo che è la folla degli sfruttati senza volto, in attesa di essere riscattati dall’ingiustizia.

E mentre in milioni di preti fiorisce la speranza di una primavera della chiesa conciliare, μ quasi non vede il Vaticano II, e certo non ne fa un centro di interesse, anche se quando si tratta di dire cos’era stato il concilio secondo Roncalli non ha esitazione nel capire che «restituire potere ai vescovi» è il centro di una riforma che, nel mezzo secolo successivo, tutti avrebbero detto sterile.

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