Secondo alcuni commentatori, la pandemia ci ha fatto fare un salto in avanti di anni: grazie al Covid, scrivono, siamo atterrati cinque anni nel futuro. Vogliono dire che l’emergenza sanitaria ci ha costretto a delle soluzioni tecnologiche e sociali che, in condizioni normali, avremmo raggiunto solo nel 2025. Digitalizzazione, smartworking, un generale ripensamento del rapporto tra uomo e natura, tra scienza e società. Può essere. Eppure il 16 agosto 2021 mi sembrava di colpo di essere tornato vent’anni nel passato. Osservare una folla di cittadini afghani in preda a un terrore così assoluto da spingerli ad aggrapparsi al carrello di un aereo al decollo era quasi insostenibile: all’evidenza della loro disperazione (e al sentirmi in qualche modo, in quanto occidentale, traditore e complice di quell’orrore) si aggiungeva la sensazione schiacciante di essere tornati al punto di partenza. Quando, poco dopo il decollo, quei giovani non poterono far altro che gettarsi nel vuoto, i loro corpi, le loro figure hanno ricordato a tutti i “falling men” che l’11 settembre del 2001 si gettavano dalle Torri Gemelle in fiamme, suicidandosi pur di fuggire una morte ancora peggiore. Com’è possibile che siamo ancora lì? mi chiedevo. Com’è possibile che tutto questo tempo sia passato invano? Com’è possibile che si continui a cadere, cadere, cadere?

All’ombra delle Torri

Nel romanzo di Don DeLillo L’uomo che cade (2007, Einaudi, traduzione di Matteo Colombo) a un certo punto si immagina, un po’ di sfuggita, più per allusioni che esplicitamente, un fantomatico libro, visionario, profetico, indecifrabile, «che descriveva nel dettaglio una serie di forze globali che sembravano convergere verso un punto esplosivo nello spazio e nel tempo, facilmente identificabile con New York in una mattina di fine estate nei primi anni del ventunesimo secolo», un manoscritto monstre che anticipa gli eventi dell'11 settembre 2001, «pieno di statistiche, resoconti aziendali, progetti architettonici, diagrammi di flusso di terroristi», ma anche un libro «scritto male, strutturato male, incredibilmente noioso». Forse sarà davvero così il libro definitivo sull’11 settembre, un libro che sarà scritto solo nel futuro, in un futuro abbastanza lontano affinché le Torri abbiano smesso di proiettare la loro ombra: l’ombra di un oggetto assente, un’ombra fatta di lutto e dolore forse non ancora elaborati, un’ombra che rende tutto confuso, di difficile comprensione anche a vent’anni di distanza. 

Siamo ancora ben lontani dall’uscire da quell’ombra, purtroppo. Gli attentati a New York e Washington di quella «mattina di fine estate» continuano a riverberarsi nelle nostre vite con conseguenze tanto a livello geopolitico (che i fatti in Afghanistan di questi giorni hanno reso evidenti: non che prima lo fossero meno) quanto individuale. È di qualche settimana fa un lungo e struggente articolo di Jennifer Senior sull’Atlantic che racconta la morte negli attentati di un ragazzo di 26 anni, Bobby McIlvaine, ma soprattutto le conseguenze di quel lutto sulla sua famiglia e la sua fidanza. «Immaginate di essere in cima a un montagna e avete tutti qualche osso rotto, e per questo non potete aiutarvi gli uni con gli altri. Dovete trovare il vostro modo per scendere giù» a un certo punto dice una terapista alla famiglia McIlvaine: «Il fatto è che qualcuno può decidere di non voler scendere».

Le conseguenze ci sono state anche in letteratura. Non solo perché qualche anno dopo sono iniziati a uscire una serie di romanzi che più o meno direttamente facevano i conti con l’11 settembre, ma anche perché l’evento ha in qualche modo accelerato e reso più evidente un generale riallineamento dei rapporti tra (permettetemi questo gergo da convegno accademico) “letteratura e realtà”, “storia e rappresentazione”: una mutazione della sensibilità che ha avuto ricadute anche nella nostra produzione romanzesca. Ammesso che una compartimentazione nazionale, come i campionati di calcio, abbia senso nell’epoca di una compiuta “lettetraura mondiale”, quella che Goethe chiamava Weltliteratur. O di quella che il critico Adam Kirsch definisce letteratura globale (in The Global Novel: Writing the World in the 21st Century, Columbia University Press), quella dei Sebald, Pamuk, Murakami, Bolaño, Adichie, Hamid, Atwood, Houellebecq. Autori e storie globali non perché cancellano i riferimenti al contesto o alla lingua d’origine, anzi, ma perché fanno i conti con una cosa che molti altri autori “locali” dimenticano o di cui non sono consapevoli: di come oggi, qualsiasi esperienza nasconda in sé una dimensione globale. Una dimensione, quella globale, che non è appannaggio di un’élite cosmopolita ma di milioni di persone costrette o desiderose di spostarsi dal proprio paese d’origine. E anche di chi non si muove e questi movimenti li vede arrivare a casa propria – causando spesso reazioni di chiusura identitaria e violenta. E del resto c’è stato un evento che più dell’11 settembre 2001 ha messo in discussione proprio la globalità?

Il secondo aereo

Se c’è una cosa che ha accomunato le prime (e seconde) reazioni agli attentati dell’11 settembre è la sensazione di aver assistito a qualcosa di indicibile, un evento che per la sua potenza simbolica ha messo in dubbio la possibilità stessa di rappresentarlo. L’idea stessa di rappresentazione. Il collasso del simbolo su se stesso. Paradossalmente: perché al medesimo tempo, l’immagine degli aerei che si schiantano sulle Twin Towers, sembrava arrivare direttamente dai film catastrofici hollywoodiani, un paesaggio da fantascienza all’improvviso piombato nei salotti di tutto il mondo attraverso le dirette televisive. 

Anzi, più precisamente, è lo schianto del secondo aereo a fare precipitare il mondo nel terrore, quando diventa evidente che si tratta di atti premeditati. «È stato l’avvento del secondo aereo, uno squalo che avanzava basso sopra la Statua della Libertà: quello, il momento determinante. Fino ad allora l’America era stata convinta di assistere a un fatto non più grave del peggior disastro aereo della storia; ora cominciava a farsi un’idea dell’inverosimile violenza schierata contro di lei» scrive Martin Amis nel Secondo aereo (una raccolta di suoi saggi e racconti sul tema del 2008, tradotta da Giovanna Granato per Einaudi). «Quel secondo aereo sembrava fremente di vita, galvanizzato dalla malvagità e totalmente alieno. Per le migliaia di persone nella Torre Sud, il secondo aereo ha significato la fine di tutto. Per noi, il suo bagliore era il flash di agenzia di un prossimo futuro». Il terrorismo è comunicazione politica che si avvale di altri mezzi, un modo di “scrivere”, dirottare verrebbe da dire, l’agenda politica, ma anche emotiva e culturale di un paese attraverso la violenza. Un tragico, mostruoso atto di comunicazione che colpisce molti scrittori come qualcosa che li riguarda direttamente, che tocca il loro stesso campo: «Dopo un paio d’ore alla scrivania, il 12 settembre 2001, tutti gli scrittori sulla faccia della terra stavano valutando l’esortazione che Lenin aveva minacciosamente rivolto a Maksim Gor ́kij: cambiare mestiere» scrive Amis.

Il romanziere e il terrorista

Di certo lo scrittore che più di tutti aveva riflettuto sul legame tra violenza e comunicazione di massa, tra terrorismo e letteratura è Don DeLillo. Il disastro, il collasso di tecnologia e economia, il proliferare canceroso dell’informazione dei mass media, sono alcuni dei fili che attraversano tutti i suoi romanzi. «C’è un curioso nodo che lega romanzieri e terroristi» scrive in Mao II, romanzo del 1991. «Quello che guadagnano i terroristi lo perdono i romanzieri. Il potere dei terroristi di influenzare la coscienza di massa è la misura del nostro declino in quanto forgiatori della sensibilità e del pensiero. Il pericolo che essi rappresentano è pari alla nostra incapacità di essere pericolosi». Le Torri Gemelle, quel loro specchiarsi l’una nell’altra, «puri simulacri senza più alcun riferimento a un originale» le definisce Jean Baudrillard (il filosofo che agli attentati ha dedicato Lo spirito del terrorismo, Cortina), sono sulla copertina del capolavoro di DeLillo, Underworld (1997). Era quindi inevitabile che lo scrittore newyorkese fosse tra le voci più attese per un’elaborazione letteraria degli attentati e delle loro ricadute. L’uomo che cade esce nel 2007. Il protagonista, Keith Neudecker, è al lavoro nel suo ufficio sulla Torre Nord del World Trade Center quando la mattina dell'11 settembre 2001 il primo aereo si schianta sull'edificio. Riesce a salvarsi prima del crollo – «non era più una strada ma un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità» – e trovare rifugio a casa della moglie da cui si era separato l’anno prima. Potrebbe essere l’occasione di un ravvicinamento, ma Keith sarà sempre più silenzioso, sfuggente, ripiegato in se stesso, segnato da un trauma che non riesce a elaborare. Mentre il figlio Justin passa il tempo a osservare il cielo con un binocolo in attesa che «tornino gli aeroplani» mandati dal misterioso "Bill Lawton", cioè il nome distorto con cui il bambino chiama Osama bin Laden, Keith si aliena da tutto e tutti, inizia a frequentare dei tornei di poker, si perde e nelle atmosfere fumose e anonime delle sale di Las Vegas. Un’altra, più breve, linea narrativa si alterna raccontando di un terrorista della cellula di Atta, gli incontri ad Amburgo, l’addestramento in Florida, fino al momento in cui l’aereo punta le Torri e le due linee, le due vite, quelle del terrorista e di Keith entrano in contatto, si toccano. In quel punto, vero e proprio ground zero narrativo, DeLillo fa uno dei suoi virtuosismi: quasi senza che il lettore se ne accorga, il punto di vista passa da quello del terrorista a quello di Keith, come se carnefice e vittima si fossero scambiati di posto, passati il testimone. Alla fine del libro Keith scoprirà di aver assorbito una “scheggia biologica”: quando «il terrorista esplode, letteralmente in mille pezzi, e i frammenti di carne e ossa schizzano dappertutto con una tale forza e a una tale velocità che si piantano, rimangono conficcati nel corpo di chiunque si trovi nei paraggi». 

Impossibile da mandare giù 

Susan Faludi, nel suo Il sesso del terrore (Isbn, traduzione di Elisabetta Nifosi), racconta che, nelle ore successive all’attentato, si presentarono all’ospedale di Manhattan cinque magre adolescenti che non riuscivano a “ingoiare”. Erano convinte che a seguito della distruzione delle torri si fossero depositate nelle loro gole delle cellule o dei resti umani, e questa convinzione – anche se infondata, come risultava dalle analisi – impediva loro di mangiare. Le ragazze, scrive la Faludi, «esprimevano attraverso il corpo ciò che tutti noi provavamo, ossia che la notizia era troppo dura da mandare giù»: ciò che quel sintomo diceva, era l’incapacità di “digerire” la catastrofe, di imporle un senso, e quindi anche di costruire intorno ad essa una narrazione. 

L’uomo che cade allora è anche un romanzo sull’identità, su come cambia, su come viene plasmata dagli eventi e dall’esperienza, ad esempio quando l’alterità assoluta irrompe nelle nostre vite, precipitando letteralmente dal cielo. Anche ne Il fabbricante di eco di Richard Powers (2006, Mondadori) c’è un problema di identità. Il personaggio principale è il classico redneck dell’America profonda che, a seguito di un incidente, riporta un danno neurologico: non riesce più a riconoscere i suoi cari, pensa che siano stati sostituiti da degli automi, dei replicanti, dei “bacelloni” come nell’Invasione degli ultracorpi (anche questo fenomeno esiste davvero: è la sindrome di Capgras). La guarigione, ambiguamente, avverrà il giorno dell’annuncio dell’invasione dell’Iraq. Sono storie che raccontano un’identità in crisi, in cui il nemico può essere ovunque, chiunque, dentro di noi, in famiglia. Ken Kalfus porta quest’idea all’estremo con il romanzo più caustico sulla vicenda: in Uno stato particolare di disordine (Fandango) marito e moglie in mezzo a un sanguinoso divorzio, l’11 settembre avrebbero dovuto trovarsi uno nelle Torri l’altra sul volo della United 93 caduto nei pressi del Pentagono. Vicendevolmente ignari del destino del compagno, alla notizia degli attentati si scoprono incredibilmente… felici, ben contenti che l’odiata controparte ci abbia lasciato le penne. Tanto era l’odio privato che li divorava da confondersi e inglobare l’odio che ha causato gli attentati. 

Lasciando solo una citazione al meno riuscito Terrorista di Updike (Guanda), c’è la famiglia al centro anche di altri due romanzi sull’11 settembre, Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer (Guanda) e I figli dell’imperatore di Claire Messud (Bollati Boringhieri): non è un caso che questa “prima ondata” di romanzi sull’11 settembre sia stata criticata (ad esempio da Pankaj Mishra, l’autore de L’età della rabbia) per un presunto ripiegamento nel privato, quasi che i problemi di coppia fossero l’unica metafora disponibile per raccontare il post-11 settembre. Ma come dice un personaggio di Jay McInerney in The Good Life (2006, Bompiani, traduzione di Ettore Capriolo) in effetti molti americani vedevano «il mondo fuori Manhattan più che altro in termini di investimenti finanziari o opportunità di vacanze» e la prima reazione, anche per i romanzieri, fu lo shock per il mondo che tornava a bussarti a casa, dopo gli anni novanta passati tra l’illusione della fine della Storia a favore di una pax americana senza fine e l’abbaglio di una crescita economica inarrestabile.

Dalle Torri a Trump

Raccontando se non le ragioni quantomeno i punti di vista degli “altri”, sono stati i romanzi degli anni successivi, a partire dal Fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid (2007, Einaudi), a mostrare quanto la Storia fosse tutt’altro che finita. Cancellando o rendendo molto più porosi i confini, la globalizzazione aveva anche liberato forze e conflitti a cui non eravamo pronti, complicato identità, esposto sia a opportunità che a tentazioni senza precedenti. Fino al recente Elegie alla patria (La Nave di Teseo) di Ayad Akhtar. Hanno allargato lo sguardo al mondo e mostrato un contagio mimetico che covava sotto la cenere delle nostre società e che le ricadute degli attentati hanno fatto emergere.

Un contagio ben previsto da James G. Ballard. In Millenium people (2003, Feltrinelli) Ballard immagina Londra, la Londra post-11 settembre, scossa da una serie di misteriosi e insensati attentati terroristici. Ma non di stampo islamista: quella in atto nel romanzo di Ballard è una “rivolta delle classi medie”. È infatti la media borghesia professionista, intellettuale, dirigenziale a lanciarsi in una – un po’ ridicola – rivoluzione contro quegli stessi simboli del consumo culturale globale (musei, cinema multisala, Blockbuster, fast-food...) che da distintivi del privilegio si sono rovesciati in strumenti dello sfruttamento. Mentre nel suo ultimo romanzo Regno a venire (2006, Feltrinelli), la rivolta della classe media viene aizzata e iacanalata da un carismatico cialtrone populista che sembra anticipare Farage, Trump e gli omologhi di casa nostra.

Il ritorno del reale

In un saggio molto influente del 2008, «Le due strade del romanzo» (ora in Cambiare idea, SUR), Zadie Smith scriveva de La città invincibile di Joseph O’Neill (2008, Rizzoli), chiosando ironicamente così: «È il romanzo post-11 settembre che speravamo. (Qualcuno si aspettava, nel 1915, il romanzo del Lusitania? Nel 1985, il romanzo di Bhopal era molto atteso?) È come se, con un atto di preghiera collettiva, avessimo voluto che esistesse». Sottintendendo che magari è la stessa categoria di “romanzo dell’11 settembre” a essere discutibile: forse tutta questa attenzione è legata all’eccezionalismo americano. 

Il punto è che, quando parliamo di letteratura, dovremmo guardare prima alla forma che al “contenuto”: il romanzo non è una scatola da riempire. Ecco, se c’è un’ombra lunga che l’11 settembre ha proiettato sui modi in cui scriviamo, va cercata altrove: credo soprattutto in un certo modo di raccontare la realtà, un lungo e diffuso senso di stanchezza verso il romanzesco, verso la trama di invenzione con i suoi personaggi fittizi e la sua grammatica fatta di snodi, colpi di scena, archi narrativi. Da qui un fiorire di forme nuove, o un ritorno di modi a lungo dispersi, dall’autofiction ai romanzi più ibridi, in cui saggio e racconto si mescolano e rafforzano; dall’uso delle immagini al reportage letterario o al nature writing. «Il romanzo, questo cannibale»: così lo definiva Virginia Woolf, perché da sempre il romanzo va a caccia di realtà da inglobare nelle sue pagine. Dopo l’11 settembre c’è stato come un aumento di questa Fame di realtà (è il titolo del saggio di David Shields del 2010 su questo tema, fatto solo di frammenti e citazioni da altri libri), un “ritorno del reale” dovuto, ovviamente, non solo agli attentati: ma quell’evento, quel collasso di immaginario e simbolico, è stato come un “attrattore strano”, il punto, secondo la teoria del caos, attorno a cui evolve un sistema dinamico. Un buco nero che con le sue energie oscure e forze misteriose ha interrogato gli scrittori. E continua a farlo. 

© Riproduzione riservata