La testimonianza, si pensava fra 1945 e 1949, non è mai fine a sé stessa: rappresenta gli orrori di cui l’uomo è capace nella prospettiva di un mondo a venire in cui il ricordo degli orrori diventi inutile. Una prospettiva che abbiamo oggi dimenticato.

Alla fine della guerra si pensava che tutto quanto di valido l’umanità avrebbe saputo produrre, lo avrebbe prodotto a di­spetto delle avversità, piegando queste alla propria volontà, traendo vigore dal dolore e intelligenza dalla fatica. Questo concetto presto dimenticato prendeva forma nella cosiddetta «filosofia del ciononostante». L’espressione l’aveva coniata Thomas Mann in La morte a Venezia.

Applicare al giorno della memoria il nome di Thomas Mann, servirci di una sua frase tratta da un libro dove non si parla di Shoah, non significa fare sfoggio di pura erudizione. All’indomani dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, la ragione stessa della sopravvivenza affondava le sue radici in quel principio. La testimonianza del superstite scaturiva da questa necessità. Nonostante la sofferenza patita, la speranza domina l’abominio.

Aschenbach scrive che quanto esiste si è attuato «nonostante la pena e l’angoscia, la miseria, la solitudine, la debolezza del corpo, il vizio, la passione e mille altri ostacoli…».

Averlo dimenticato rappresenta uno dei motivi principali della crisi profonda in cui versano i nostri discorsi sulla crisi della memoria e, dunque, del 27 gennaio.

Ritorno alla vita

Rientrati a casa i sopravvissuti si cercavano, si scrivevano, scambiandosi ricordi, più spesso fogli di taccuini, disegni delle baracche, fornendo insieme gioiose descrizioni di vita domestica, il ritorno alla vita. Colpisce il tono delle loro voci. Bisognerebbe un giorno raccogliere in volume questi primi vagiti.

Parlano e scrivono come se con le loro parole o i loro schizzi a matita (spesso semplici, infantili: si pensi a Thomas Geve, di cui Einaudi ha appena pubblicato un libro importante, Il ragazzo che disegnò Auschwitz) costituissero la genesi di un mondo a venire. Si sentono autorizzati a toccare punte elevatissime di tensione emotiva, mossi a riveder le stelle, come se fossero Dante al termine del suo cammino, quando non addirittura Dio all’indomani della creazione del mondo.

Questa stagione si è consumata nello spazio di un breve mattino, come era inevitabile, ma non ci assolve: abbiamo commesso un errore imperdonabile nell’archiviare, noi con loro, la potenza pedagogica del “ciononostante” di Aschenbach.

Nel mio libro Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni (Add editore) ho tentato di tracciare le linee generali della “filosofia del ciononostante”, risalendo alle sorgenti di un pensiero già presente nell’età classica.

Può essere importante riscoprire gli inconsci precursori di una disciplina dal volto antico: per esempio gli autori delle grandi cosmogonie della classicità, fonti tutte in modo più o meno esplicito richiamate in Se questo è un uomo: la Bibbia e la confusione babelica, le pagine di Tucidide sulla peste di Atene, il De rerum natura di Lucrezio, l’itinerarium mentis in Deum della Commedia dantesca. Non una narrazione afflittiva ma un repertorio di metafore da riscoprire: la ginestra che torna a fiorire nel canto di Leopardi, il ritorno al lavoro nei campi dopo il diluvio universale.

Apocalisse redentiva

La scrittura del testimone del caos parte da una premessa distruttiva, l’elemento negativo sembrerebbe prevalere, ma assai prima di Auschwitz abbiamo appreso che l’apocalisse non è mai irredimibile.

Si è parlato di apocalisse “redentiva” a proposito degli studi di Ernesto De Martino sugli antichi riti folklorici dell’Italia meridionale, ma ritroviamo lo stesso principio nelle storie ferraresi di Giorgio Bassani. Secondo un’antica tradizione seicentesca, l’erba che cresceva in modo selvaggio sulle tombe del vecchio cimitero ebraico veniva donata ai contadini del circondario: il filo della vita non può essere interrotto dal lutto. Nell’ebraismo, del resto, il cimitero è chiamato “Casa dei vivi”.

Trovandosi a visitare le pendici dell’Etna, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, un grande storico dell’arte, Bernard Berenson, ai contadini del luogo che gli spiegavano come periodicamente la lava scendesse a incenerire i loro campi, domandava: «E allora perché continuate a coltivare queste terre?». «Perché quando i tempi tornano buoni, voscenza», gli rispondevano, «così buoni sono, che ci ripagano di qualunque malanno».

Le sue parole applicano la legge di Aschenbach, la quale non riguarda esclusivamente la memoria ebraica. Guai a servirci in chiave particolaristica della “filosofia del ciononostante”.

Nel Visconte dimezzato di Italo Calvino, gli aratori del vulcano di Berenson vestono i panni dei protestanti dell’entroterra ligure, perseguitati per la loro fede. Sudano e s’affaticano sui ripiani calcinosi per tenere in vita le loro coltivazioni: «Era gente scappata di Francia dove il re faceva tagliare a pezzi tutti quelli che seguivano la loro religione. Nella traversata delle montagne avevano perduto i loro libri e i loro oggetti sacri, e ora non avevano più né Bibbia da leggere, né messa da dire, né inni da cantare, né preghiere da recitare.

Diffidenti come tutti quelli che sono passati attraverso persecuzioni e che vivono in mezzo a gente di diversa fede, essi non avevano voluto più ricevere alcun libro religioso, né ascoltare consigli sul modo di celebrare i loro culti. Così s’erano messi a coltivare le dure terre di Col Gerbido, e si sfiancavano a lavorare maschi e femmine da prima dell’alba a dopo il tramonto, nella speranza che la grazia li illuminasse».

Un’antologia scolastica di questi testi, scritti al ritrarsi della lava, sarebbe auspicabile. Sarebbe più utile di un frettoloso, rituale viaggio di istruzione ad Auschwitz.

La desolazione prodotta dalla pandemia rende prossimi a noi i filosofi del ciononostante, gli antichi e i moderni. Ascoltare le loro voci aiuterebbe a reagire contro le cerimonie stanche e ripetitive che spesso accompagnano il giorno della memoria.

Che la grande stagione della filosofia del ciononostante si sia consumata senza trovare forze giovani capaci di conservarla è un serio problema del nostro tempo.

In un passo famoso di Se questo è un uomo, già presente nell’edizione 1947, si legge una frase che sembra essere tratta da un libro di Ernesto De Martino sulle apocalissi redentive: «Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esi­stito, nessuno dovrebbe ai nostri giorni parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell’ora il ricordo dei salvamenti biblici nelle avversità passò come un vento per tutti gli animi».

Parto simbolico

Un fascino particolare, oltre che la Bibbia e Dante procurava il poema di Lucrezio, che si conclude con la descrizione di un unicum simile al lager nazista, la peste in Atene, ma prende avvio dal primo contatto di un neonato con l’esperienza del dolore: «E ancora infine il fanciullo, come un navigante che giace nudo a terra senza alcun aiuto, privo di parole e sbattuto dalle onde infuriate, non appena la natura con i dolori del parto lo ha scaraventato sulle spiagge della luce fuori dal grembo materno, riempie lo spazio con un pianto lugubre, come è giusto per colui al quale nella vita tocca attraversare tanti mali».

In un passo di Se questo è un uomo, che si legge verso l’inizio del capitolo Le nostre notti, l’omaggio al primo filosofo del ciononostante è evidente: «Ma l’uomo che esce dal Ka-Be, nudo e quasi sempre insufficientemente ristabilito, si sente proiettato nel buio e nel gelo dello spazio siderale. […] È inerme e vulnerabile come un neonato, eppure al mattino dovrà marciare al lavoro».

In mezzo alle doglie di un parto simbolico, l’uomo si presenta come un neonato. Così, al loro ritorno, i reduci dal lager. «Al ritrarsi della lava», anzi ancora nel pieno della colata lavica, essi hanno piena consapevolezza di essere testimoni del passaggio dal disordine babelico all’ordine armonioso di un mondo rigenerato dentro il quale la vita riprenderà il suo corso.


Alberto Cavaglion è autore del libro Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, edito da add editore

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