Mi viene addosso uno scoppiato che staziona sul crescentone di piazza Maggiore dalla mattina alla sera. La magrezza estenuata, da ex tossico, lo fa apparire più giovane di quel che è. Al suo aspetto giovanile contribuiscono anche gli stracci che lo ricoprono, dei calzoni come macchiati di vernice e una camicia a quadretti variopinti da Arlecchino del mercato.

«Tu sei uno di quelli che negli anni Settanta ci gridava “Andate a lavorare”, vero o no?»

Io lo guardo con un’espressione ferma ma interrogativa.

«Eccolo qua il tipico sguardo bovino del borghese, del benpensante», esclama, cominciando a toccarsi il pacco. «Oh, io i coglioni mica te li do, non ci penso neanche! Trova qualcun altro da castrare con quello sguardo da sbirro!».

Faccio per andarmene ma quello mi agguanta un braccio. «Oh, ma lo sai che quest’anno il Dams compie cinquant’anni?».

«Intendi il corso di laurea in discipline delle arti, della musica e dello spettacolo inventato da Umberto Eco?».

«E cosa sennò?».

Ho letto la notizia da qualche parte perciò annuisco.

«Mica l’ha inventato Umberto Eco, però. L’intuizione venne a un pacato grecista che si chiamava Benedetto Marzullo».

Annuisco ancora, stavolta con più convinzione, quasi gli sorrido come per ringraziarlo di quella precisazione non voluta, e faccio per allontanarmi.

«Oh, ma allora tu non capisci proprio un cazzo», mi dice, trattenendomi di nuovo. «Io qui c’ho la reliquia».

«La reliquia?».

Soltanto in quel momento mi accorgo che, nonostante la temperatura primaverile, si tocca le frange di una sciarpa di lana rossa che gli penzola dalle spalle.

«Questa sciarpa qui sa tutto, è meglio di una mascotte, è un feticcio magico!».

Non voglio guardarlo come si fa con i matti, anche se temo proprio di guardarlo così.

«Socc’mel, non ci credi eh? Allora inizio dal 1971, che questa sciarpa qui era al collo di Benedetto Marzullo quando si domandò che cosa ci si poteva inventare per modernizzare l’Alma mater studiorum altrimenti detta Università di Bologna, che è la scuola più antica del mondo, e Umberto Eco, già allora apocalittico e integrato al tempo stesso, aveva tagliato corto: «Basterà equiparare Nietzsche a Charlie Brown». Questa sciarpa qui ha raccolto le reazioni scandalizzate della gente, che a quegli studenti artistoidi gridava di non rompere l’anima e andare a lavorare, o al limite ubriacarsi di lambrusco insieme a Guccini all’osteria delle Dame. Questa sciarpa ha seguito un’infinità di lezioni, poggiata sulle sedie o direttamente sulle cattedre, lezioni rivoluzionarie di professori che tenevano lo stesso tenore di vita dei loro allievi, una scapestrata voglia di studiare dal vero piuttosto che dai libri, tanto che più d’uno invitava i ragazzi a chiudere i quaderni e a scrivere sui muri. Questa sciarpa qui, nell’ordine, ha scaldato la gola di Gianni Celati, il quale cercava di spiegare la metafisica della pianura padana attraverso le foto di Luigi Ghirri (ma più che lezioni di crossover, erano tentativi di convincere gli studenti che quelle analogie fossero importantissime); è stata perduta nella cantina in cui Paolo Fresu suonava la tromba in interminabili sessioni jazz, facendo ascoltare prima delle note il suono della vita, che è sempre e comunque un’improvvisazione; si è infilato dentro i cuscini dei divani della casa occupata Traumfabrik, una factory alla Andy Warhol degli studenti del Dams, dove passavano le giornate Andrea Pazienza – più attratto dalle partite a boccetta che dalle aule universitarie – e Pier Vittorio Tondelli, secondo cui bisognava abbracciare la filosofia del “riuscire nella vita è fallire”, e di altri imperativi quali: “Svacco e scazzo, buttare via tutto, non pensare mai al futuro, non fare mai progetti, avere orrore di costruirsi una carriera”; si è impigliata nei microfoni di Radio Alice e di altre radio libere, che facevano controinformazione ignorando cosa mai fosse la comunicazione di massa, e trasmettevano spesso e volentieri le canzonacce degli Skiantos di Freak Antoni (la più grande azione anarcoide insurrezionalista sarà sempre una risata); è stata lasciata penzolare dalle tasche dei cappotti dei rivoltosi del ’77 ed è passata di collo in collo finché non ha avvolto quello gelido di Francesco Lorusso, militante di Lotta continua assassinato; è entrata nelle redazioni di Linus e Frigidaire con le tavole fresche di Zanardi e Pentothal, quando il fumetto parlava un linguaggio eversivo e non era ancora diventato una graphic novel, l’oggetto fighetto che adorna i tavoli bassi dei salotti di voialtri, e più di un testimone è pronto a giurare che Igort ci si soffiasse il naso; si è intrisa del sangue della catena di omicidi sospetti della prima metà degli anni Ottanta, su tutti quello della critica d’arte Francesca Alinovi (47 coltellate inflitte all’intelligenza di tutte le donne libere, o forse soltanto troppa droga), cominciando a ridurre la spinta propulsiva dell’università al suo stesso mito, la parte del mito narrabile e perciò accettabile, forse un format televisivo tra Fame, Saranno famosi e una serie crime ante litteram...».

Adesso sono io a prendergli un braccio e a tentare di scuoterglielo, per tentare di interrompere quel flusso di coscienza così simile a un delirio.

«Oh, cazzo fai? Non ti interessa più?» mi fa, risentito. «Guarda che il Dams è già sui libri di storia. Gli altri atenei ci hanno copiato, l’acronimo iniziale si è moltiplicato e diversificato. A Roma è Arti e scienze dello spettacolo, a Bari Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale, a Venezia Arti visive e dello spettacolo. Cambiano il nome ma l’idea è sempre quella, togliere un po’ di muffa dai libri».

Mi stringo nelle spalle. «Devo proprio andare».

«Ma dove mai avrete da andare tutti con questa urgenza? Vi state tutti a rincorrere tra di voi senza sosta e manco ve ne rendete conto. Basterebbe che uno solo si fermasse e vi incontrereste tutti».

Caccio un sospiro, tradendo una certa impazienza di alzare i tacchi.

«Socc’mel, ho capito, adesso ti lascio andare!», mi dice, deluso. «Comunque la sciarpa di lana rossa di cui ti ho parlato è veramente questa qui».

Me ne allunga un lembo, vorrebbe che la toccassi. La guardo con un misto di attrazione e raccapriccio, come se la storia che ho appena ascoltato all’improvviso potesse essere vera.

«Te la faccio toccare per un euro», mi propone. «Così vado a bermi un caffè. Un tempo lo prendevo all’Otello, era il bar preferito di Umberto Eco. Ora è diventato una ricevitoria, buffo no?».

Visto che non dico nulla, mi sorride scoprendo i denti intaccati dalla nicotina.

«Ho fatto il Dams anch’io, ma io sono uno di quelli che ce l’ha fatta davvero», mi dice. «Ho fallito in tutto».

Restiamo così, uno davanti all’altro, immobili sul crescentone di piazza Maggiore, lui che tende il lembo della sciarpa e io che mi perito a toccarlo. Tutto sommato sembra una canzone di Lucio Dalla, e va bene così.

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