Dacché possa ricordare, il desiderio di sentirmi appartenere – a un luogo, a un gruppo, a una persona – è una delle spinte che più mi mandano avanti lungo il percorso. E sebbene di recente sia giunto alla triste conclusione (triste per me, non è detto lo sia per voi) che non sarò mai capace di soddisfare questa necessità – non sento di appartenere a me stesso, figurarsi ad altri – nel leggere l’esordio di Espérance Hakuzwimana mi sono sentito meno solo.

Tutta intera (Einaudi 2022), è l’opera prima di un’autrice giovanissima il cui posto nel mondo è una ricerca continua, e inesausta. Hakuzwimana, di origini ruandesi e cresciuta nel bresciano, con prosa limpida e sguardo vigile, ci tiene per mano accompagnandoci nella vita di Sara e dei suoi alunni, tutti di origini diverse, tutti pronti a prendere il mondo per le spalle e scrollarlo.

Sei nata in Ruanda nel 1991. Cos’è successo, poi?

Tante cose, e molte le ho scoperte solo di recente, attraverso dei documenti.

Che documenti?

Fax, fotocopie in francese, pagine scritte a mano, articoli di giornale, appunti. Un faldone gigante.

Dove l’hai trovato, questo faldone?

Ce l’aveva mio padre adottivo, ma io non sapevo neanche esistesse. Sapevo quand’ero piccola che in casa c’erano delle Vhs, da bambina capitava che le guardassi di nascosto (filmati di quand’ero neonata, girati all’orfanotrofio), ma non dei documenti.

Te li ha dati lui, quindi?

Sì, pochi anni fa. Vivevo già da sola, e in una delle rare volte in cui ci siamo sentiti mi ha detto che doveva darmi delle cose. Con mio padre adottivo ho un rapporto pessimo fatto di silenzi che si sono dilatati negli anni. E il silenzio più grande tra noi ha sempre avuto a che fare con le mie origini: i miei genitori adottivi non mi hanno mai raccontato niente dei miei genitori biologici; cosa che ha pesato molto sul nostro rapporto. Per questo ho apprezzato il suo gesto: che mi abbia voluto dare questi documenti è stato come se, a distanza di anni, avesse cercato di riempirli, quei silenzi.

Cosa c’è in queste pagine?

È una raccolta di reperti su una fase della mia vita di cui io non sapevo niente. Il certificato di nascita, le prime cartelle cliniche, leggendole ho scoperto che fino a un anno pesavo solo quattro chili , il primo permesso di soggiorno, ma soprattutto tante cose sui miei genitori biologici.

Cosa sapevi di loro, prima?

Mi avevano detto solo che mia madre era morta di Aids e mio padre era stato ucciso nel genocidio.

E basta?

E basta. Come dicevo, circa le mie origini in casa c’era silenzio.

E poi?

E poi grazie a questi documenti ho avuto la possibilità di scoprire altro. I loro nomi, ad esempio. Leggere i loro nomi è stato un momento potentissimo.

Come si chiamavano i tuoi genitori?

La mia mamma si chiamava Suzane. Il mio papà Nicodemu.

Ci tenevi a conoscere il loro nomi?

Da piccola scrivevo spesso sul mio diario che mi sarebbe bastato questo. Non chiedevo altro: desideravo solo sapere i loro nomi. I bambini adottati vengono spesso privati della possibilità di attraversare il lutto per la morte dei genitori biologici: su di loro ci viene raccontato poco perché i genitori adottivi sperano di proteggerci dal dolore. Spesso però ottengono il risultato opposto. Chiudere la porta sul passato, sbarrarla, vietarci di oltrepassarla non è la soluzione. Ciò di cui avrebbero bisogno i bimbi adottati è elaborare il passato, non ignorarlo.

Leggendo i loro nomi hai potuto farlo?

In qualche modo credo di sì. Per me dare un nome a una cosa – in questo caso a due persone – rende quel qualcosa più concreto, reale. Se hai un nome vuol dire che esisti, ci sei.

Torniamo alla tua storia. Hai menzionato un orfanotrofio.

Quand’avevo un anno e mezzo mia madre è morta, ma non di Aids come mi avevano detto: è stata uccisa. La mia famiglia viveva nel nord del Ruanda e all’epoca c’erano già scontri armati. Allora, mio padre e i miei fratelli (avevo due fratelli più grandi) si sono spostati a sud, nella speranza di sopravvivere. E hanno traversato il paese a piedi, camminando per giorni interi; dico hanno perché non ne ho ricordo, avevo meno di due anni, ma in effetti ero lì con loro e dovrei dire abbiamo traversato il paese a piedi.

Mio padre però non riusciva a sfamare tutti e tre: il Ruanda era in condizioni di grande povertà, il genocidio stava per iniziare e lui i soldi e il cibo necessari per tre figli non li aveva. Così mi ha portata prima in un ospedale, dedicato a bimbi rimasti orfani, anziani e mutilati, e da lì mi hanno spostata all’orfanotrofio a cui facevo cenno. Quando le milizie sono arrivate pure lì e sono cominciate le violenze di cui sappiamo, l’associazione italiana che gestiva l’orfanotrofio ha deciso di portare me e gli altri 40 bimbi in Italia.

Cos’è successo, quindi?

Siamo arrivati in provincia di Brescia, ci hanno sistemati in un asilo in disuso, diventato un centro di accoglienza improvvisato, e nel 1995 sono stata adottata.

Se ripensi a tutto quello che hai vissuto, senza coscienza di te stessa e degli eventi attorno, ti riconosci in quella bimba o è altro da te?

Il corpo non dimentica. Puoi pure non avere memoria di un accadimento, ma il corpo sì: se lo porta dietro, dentro. I rumori forti mi fanno star male dacché io possa ricordare, ad esempio. E di rumori forti – rumori che hanno a che fare con la violenza – i miei primi anni di vita sono pieni.

Entriamo nel romanzo. Tutta intera si apre con una scena molto dura: la protagonista vuole sbiancarsi con la candeggina.

Non mi sono allontanata poi tanto dalla realtà. La disperazione di non sentirsi appartenere, il desiderio di far parte di una famiglia, essere simili a qualcuno, è, specie da piccoli, un miscuglio doloroso. E Sara, mia personaggia, sarebbe disposta a fare di tutto, da piccola, pur di sentirsi parte della famiglia adottiva.

Hai detto di non esserti allontanata dalla realtà. Che intendi?

Che ho conosciuto tanti ragazzi e tante ragazze afrodiscendenti il cui rapporto con la propria pelle è stato altrettanto travagliato. Alcuni mi hanno raccontato che da piccoli sognavano di svegliarsi e trovare sotto il cuscino una maschera bianca. Altri che prendevano di nascosto i trucchi della madre sperando che, usandoli, potessero somigliarle: l’ho fatto anch’io.

Questi gesti a cosa rispondevano?

A un quesito tanto semplice quanto terrificante: sentendoti sempre estranea a ciò che hai attorno, cosa faresti pur di avvertirti parte della maggioranza?

Crescendo?

Crescendo mi sono data la stessa risposta che si dà Sara, bene o male: ognuno di noi può essere tutto ciò che gli è concesso d’essere e nient’altro, e in questo non c’è nulla di male, anzi.

Ricordi, tornando alla tua infanzia, le prime occasioni in cui ti sei sentita a disagio per il colore della tua pelle?

Sì, ed è un racconto paradossale. Da adolescente ho frequentato i quaranta bambini con cui ero in orfanotrofio. Eravamo stati adottati da famiglie della provincia di Brescia, e non abitavamo distanti gli uni dagli altri. Certi nello stesso quartiere o paese e, com’è ovvio, sono cresciuti assieme in famiglie e contesti simili. Altri, invece, sono venuti su poco più lontani: tra questi c’ero io. Così, quando ci incontravamo, certi – la maggior parte, in realtà – facevano gruppo e se la prendevano con quelli rimasti fuori. Tipo me.

Scusa, ma non capisco: questi episodi cosa hanno a che fare con il disagio che sentivi da bimba circa il colore della tua pelle?

Sebbene quei ragazzi fossero di origini ruandesi come me, sebbene venissimo dallo stesso posto – paese, città, orfanotrofio – e sebbene il colore della nostra pelle fosse uguale, mi insultavano con commenti razzisti. Frasi che erano state rivolte loro dagli amici bianchi dei paesi e delle città in cui vivevano, forse, e quando c’incontravamo le indirizzavano a me.

Ma davvero?

Te l’ho detto: è un racconto paradossale.

Li senti o li vedi ancora?

No, siamo troppo diversi; oggi certi votano Lega, pensa: si è chiuso il cerchio.

Di nuovo al romanzo. Gli alunni di Sara hanno un modo di viversi diverso rispetto al suo. È una differenza generazionale o dipende dall’età?

Non so tu, ma io da adolescente ero un’arrogante incredibile e volevo che gli alunni di Sara avessero quell’arroganza, tipica dei quindicenni.

Perché?

È un passaggio fondamentale dell’adolescenza e penso sia molto interessante. A quell’età, pur di fuggire i dubbi che iniziano a fare capolino, ti attacchi, con tenacia spaventosa e convinzione inattaccabile, a qualsiasi cosa ti faccia stare bene. Può essere la cosa più profonda, intelligente del mondo oppure l’ultima canzone che hai sentito: non importa. Niente e nessuno ti ci può staccare, poi, perché senti quel qualcosa come intrinsecamente tuo. Per questo siamo tanto arroganti a quindici anni, secondo me. Crescendo, poi, vieni assalita dai dubbi (oggi non muovo un passo senza dubitare della mia intera esistenza), e perciò trovo sia un passaggio fondamentale e interessante.

Espérance, l’ultima domanda: la faccio a tutti, questa. Hai sessant’anni ed è domenica mattina: dove sei, con chi sei, cosa fai?

Comincio con una premessa, e vediamo se riesco a farlo senza piangere (ride, ndr). Fino a cinque, sei anni fa io manco riuscivo a immaginarlo, il mio futuro. Non ero proprio capace di vedermi oltre i quarant’anni. La fatica di vivere era troppa, gli anni che si accumulavano davanti a me una montagna talmente alta che ero certa di non poterla scalare. Oggi va meglio ma provo comunque tanta difficoltà a immaginare il mio futuro.

Sforzandomi, però, mi vedo a casa mia, a Torino: sono nel balconino, mi sono appena svegliata, sto bevendo una delle mie camomille; è una bella giornata di sole ma non fa caldo. E accanto a me… be’, spero che accanto a me ci sia qualcuno. Ecco, lo spero tanto, questo. Con me, seduto su quel balconcino, vorrei ci fosse qualcuno.

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