Almeno il processo di beatificazione conoscerà una pausa. Il ritiro dagli Internazionali d'Italia che Jannik Sinner ha annunciato ieri con grande sorpresa di tutti è diventato immediatamente divisivo tanto quanto i successi avevano fatto di Jannik un elemento unificante della passione italica. Le voci si sovrappongono: ma proprio non poteva fare a meno di giocare tre partite a Madrid acuendo il dolore all'anca che lo ha costretto a saltare Roma? Lo vedi che e’ italiano per modo di dire visto che per ha preferito conservarsi per Parigi piuttosto che giocare al Foro?

Ma Sinner non è un traditore della causa nazionale. E’semplicemente un top player che guarda alla stagione nel suo complesso come e giusto che sia per uno che vuole diventare numero uno al mondo. Ma essendo un essere umano sbaglia anche: andare a Madrid e’ stato un errore. Pero’ dato che da qui a qualche settimana saremo tutti pronti a saltare sulla sedia per il Roland Garros e da qui ad un paio di mesi ci saranno le Olimpiadi sarà meglio perdonare in fretta al ragazzo e al suo team l’errore di programmazione e guardare avanti. Nel frattempo Roma ospiterà un torneo senza Sinner, Alcaraz e chissa’ Medvedev: sognava altro. Ma mica può sempre andare tutto per il verso giusto nella vita.

E poi a proposito di sguardi: per capire dove sta andando il torneo romano con o senza Sinner bisogna provare a guardare il tutto con lo sguardo di Bud Collins. Il grande narratore di tennis e non solo che scriveva sul Boston Globe e che arrivò in Italia accompagnato a guidato dal suo sodale Gianni Clerici. Bud, un omone americanissimo che per il suo giornale era stato pure in Vietnam, scoprì Roma, osservò l’ex Foro Mussolini divenuto Italico, colse un aspetto del tennis che lì andava in scena e gli parve di essere stato catapultato in un altro mondo. Si guardò intorno e partorì la frase che sarebbe diventata manifesto: «Gli inglesi hanno inventato il tennis ma gli italiani lo hanno reso umano». Non esitò in seguito, a dire che Roma era il «quinto torneo dello Slam». Una definizione allora assai romantica che però è tornata di moda di questi tempi, nell’immediata vigilia dell’ottantunesima edizione degli Internazionali d’Italia, seconda dell’era dei “mini-Slam”, categoria cui (per adesso) l’evento appartiene.

Il fatturato

A fare dell’espressione di Collins una prospettiva è stato il presidente della federazione Angelo Binaghi, in attesa di sapere se potrà raggiungere la quota putinana di 28 anni alla guida della Federazione (elezioni in settembre), ente proprietario degli Internazionali. Certo è che nessun altro torneo di tennis al mondo ha avuto una simile crescita esponenziale: nel 2002 il torneo fatturava 15 milioni di euro, nel 2023 ha toccato i 170.

Quest’anno sono attesi più di 300.000 spettatori frutto anche del fatto che adesso la festa dura 12 giorni invece degli antichi e canonici otto per effetto degli interventi sul calendario voluti dal presidente Atp Andrea Gaudenzi. Oltre a essere un fautore della fusione totale fra la sua associazione e la Wta, l’equivalente femminile, ha elevato il rango di Roma e Madrid, portando i tabelloni a 96 giocatori e aumentando le giornate di gioco.

Il fatto è che in quanto a glamour e seguito, gli altri tornei della stessa categoria che hanno goduto di questa promozione, non possono ambire a entrare nel gotha più esclusivo dello sport mondiale manco nel più gradevole dei sogni, nel gruppo cioè composto da Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e Us Open.

Il confronto con gli altri tornei

Il “sunshine double” del marzo americano è composto da Indian Wells e Miami. Il primo è un appuntamento amatissimo dai giocatori: spazi ampi, coccole varie, pochi doveri istituzionali o pubblicitari visto che si è in mezzo al deserto della California. Ma, per l’appunto, si è in mezzo al deserto. E le tribune quest’anno non sono mai state stracolme di folla.

Dopo Indian Wells si va a Miami dove si gioca nello stadio dei Dolphins riadattato con tribune provvisorie e non è che il colpo d’occhio sia dei migliori, tanto per usare un eufemismo. Tribune provvisorie e scarsamente popolate, tra l’altro. Tutt’altra cosa rispetto alla definizione di Maria Sharapova: «A Roma le persone, i tifosi, non solo non danno fastidio ma tirano fuori il meglio di ogni giocatore. E come se la città ti desse forza».

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L’evento partner di Roma nel “mediterranean double” è Madrid, ma il confronto con la Spagna è impietoso. Il godimento dello show è spesso funestato da ombre maligne che dividono il campo a fette, il torneo non allena giocatrici e giocatori per il Roland Garros perché la pallina viaggia e salta di più visto, si gioca a 700 metri di altitudine; e chi guarda ha la sensazione di assistere a una competizione carceraria visto il pensiero architettonico che ha guidato la costruzione della Caja Magica.

Gli altri “mini” sono Shanghai (che ha salottini privati negli spogliatoi) e dall’anno prossimo Montreal e Toronto (ad anni alterni) più Cincinnati. A voler fare un po’ i campanilisti: tre città tennisticamente accoglienti ma la cui storia non vale quanto quella della sola via dei Coronari, per citare una strada celebre di Roma.

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Il glamour e gli impianti

Gli Internazionali d’Italia sono stati per anni la declinazione tennistica della Dolce Vita romana: avevano più appeal le notti del Villaggio che i giorni di tennis giocato. Ora è il contrario: il torneo è densissimo, fin troppo.

Perché l’ambizione “slammesca” deve fare i conti con un limite congenito: lo spazio. Facile la vita a Indian Wells: se c’è bisogno di un campo in più (si fa per dire) il proprietario Larry Ellison, Mr. Oracle, fa una telefonata, si prende un pezzo di deserto e ne costruisce tre in una notte. Ma lo spazio al Foro è quello che è: nel corso degli anni il tennis si è allargato all’area delle piscine e in futuro arriverà fuori e forse dentro lo stadio Olimpico. Ma nei viali non si cammina quasi più visto il numero degli spettatori.

Se si vuole seguire un match sul Pietrangeli bisogna accamparcisi davanti (metaforicamente) la notte prima. Se si ha un’esigenza fisiologica buona fortuna. E poi c’è il Centrale che doveva essere una struttura provvisoria costruita per impedire che l’Atp togliesse al torneo la qualifica di Master 1000 e invece è ancora lì e chissà quando davvero si potrà procedere alla costruzione di uno stadio che abbia la capienza richiesta di almeno 12.500 posti: attualmente ne può contenere più o meno 9500 e l’Atp rinnova la deroga di volta in volta.

Anni fa si parlò di uno spostamento polemico e folle della sede a Fiumicino: per fortuna l’idea non proprio luminosa è passata in cavalleria.

Ma il problema rimane: come può un quinto Slam portare i giocatori ad allenarsi in cinque circoli romani cooptati per l’occasione perché non c’è spazio per tutti nell’area ufficiale?

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L’effetto Sinner

E poi c’è il desiderio che di manifesti il messia, quello che quest’anno avrebbe dovuto essere Sinner. Un desiderio che non è mai stato tanto forte dai tempi di Aaaa-dria-no! (tattaratta-tà) ed era il 1976. Sulle spalle dei ragazzi italiani (Musetti, Arnaldi, Cobolli, Sonego) pesa un’attesa di 48 anni, da quando Panatta trionfò. Per chiunque fra loro giocare al Foro è avventura più impegnativa che concorrere in uno Slam.

Anche perché, a ben vedere, se qualcuno dovesse arrivare in fondo, con l’impatto comunicativo che ciò comporterebbe, l’idea di Roma-quinto slam da una semplice boutade potrebbe diventare qualcosa di più. Per quanto possa sembrare impossibile. Sempre che si tenga fede a quanto annunciato e che nel 2025 si raggiunga la parità dei prize money fra donne e uomini: quest’anno per i maschi ci sono 9 milioni di euro, per le donne cinque milioni e mezzo. I quattro tornei dello Slam hanno prize money equiparati da tempo: no equity no slam, si potrebbe dire.

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