Un giorno del 1960 Alfred Hitchcock andò in visita allo stabilimento torinese della Fiat. L’invito arrivava direttamente dal presidente della casa automobilistica, Vittorio Valletta, che aveva una passione speciale per il regista inglese. Qualcuno, allora, gli chiese se volesse girare un film a Mirafiori e lui rispose così: «Sì, ho un’idea. Un lingotto di acciaio entra in fabbrica, viene trasformato, battuto, verniciato fino a quando diventa la carrozzeria di una macchina. Percorre tutta la catena di montaggio, gli viene aggiunto il motore, diventa un’automobile completa. Arrivata al collaudo, la portiera si apre e cade giù un cadavere. Questo potrebbe essere l'inizio del film girato”. Era furbo, Hitch. Più un furbo che un duro, per sua stessa ammissione. Faceva il grafico pubblicitario per un’azienda di cablature elettriche e in una manciata di anni conquistò Hollywood.

«Un uomo molto paffuto, più attratto dai pensieri malvagi che dalle cattive azioni», come lo ha definito il critico cinematografico David Thomson. Oppure, come diceva di sé l’interessato, «per essere un orco autore di thriller, sono un placido sempliciotto senza speranza», che si veste in modo classico, che ama le cravatte a tinta unita e, invece di leggere romanzi gialli, a casa si mette a progettare qualche mobiletto per il salotto.

Nel discorso che tenne nel marzo del 1965 davanti all’associazione dei produttori americani Alfred Hitchcock disse che se è vero, come certi sostengono da tempo, che quando un uomo sta affogando la sua vita scorre rapidamente davanti agli occhi, allora quella sera lui era parecchio fortunato perché stava vivendo la stessa esperienza «senza nemmeno essermi bagnato i piedi».

Una vita poliedrica

Alfred Hitchcock, 1991, carboncino su carta. Ritratto di Tullio Pericoli

La biografia pubblicata dal Saggiatore, Le dodici vite di Alfred Hitchcock di Edward White, permette, allo stesso modo come accadde quella sera alla fortunata platea di produttori, di vedere l’intera vita di Hitchcock, con i piedi sempre all’asciutto, in tutta la poliedricità contraddittoria della personalità e della carriera del grande regista.

Nacque il 13 agosto del 1899, Hitch, sopra il negozio di ortofrutta dei genitori a est di Londra; a nove anni fu mandato in collegio dai salesiani ma ben presto fu riportato a casa perché lì la disciplina era troppo severa e il cibo così scadente; sosteneva di essere andato a lezioni di danza dal padre della più efferata assassina della città, tale Edith Thompson, e che con lo stesso candore giurava di essere stato a letto con una donna soltanto, presumibilmente la moglie.

Chiese alla sua assistente, Alma Reville, di sposarlo mentre erano su una nave che ondeggiava pericolosamente. Lei era distesa nella cuccetta superiore della sua cabina, a soffrire il mal di mare in santa pace. Hitchcock raccontò che quando lui le fece la dichiarazione lei grugnì, fece di sì con la testa e ruttò.

Per lui, che lei accettasse, fu «un completo trionfo». Entrambi amavano la cucina francese, e nonostante lei fosse una cuoca eccellente, erano spesso entrambi a dieta. Lei era piccolina, alta appena un metro e quaranta per neanche cinquanta chili, ma se lui era a stecchetto anche lei seguiva le stesse abitudini alimentari.

Era un gran mangiatore, Hitch? A sentire lui, no: «Sono soltanto uno di quei poveri sfortunati che non può inghiottire una noce senza aumentare di quindici chili». A sentire tutti gli altri, sì, Hitch. Secondo Peter Bogdanovich parlare con lui significava mangiare insieme a lui.

Un re burlone

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Si divertiva da matti realizzando i suoi film. La scelta del romanzo da adattare, le musiche, il montaggio. «Si faccia una prova: si lasci un re completamente solo, senza alcuna soddisfazione dei sensi, senza alcuna cura dello spirito, senza compagnia, che abbia l’agio di pensare soltanto a sé medesimo; e si vedrà che un re senza distrazioni è un uomo pieno di miserie». È una frase di Blaise Pascal.

Hitch, al contrario, era un re burlone pieno, zeppo di distrazioni con cui baloccarsi. Aveva sempre nuove idee, nuovi progetti. Pare volesse girare un film su un pianista cieco che risolveva i crimini, per fortuna poi trovò tra gli scaffali di una libreria un racconto di Daphne Du Marnier, Gli uccelli, o forse Marnie di Winston Graham.

Suspense, illusioni, inquietudini, ossessioni. Una vita come una casa stregata. Sinistra, anzi, ipnotica, seduttiva. Nei suoi film le scale sono spesso un luogo di cattiva sorte: Cary Grant deve salvare Ingmar Bergman in Notoroius portandosela giù dalle scale; Tippi Hedren, se vuole provare a salvarsi dai volatili e raggiungere la soffitta, deve salire le scale; in Psycho il detective Arbogast, con il fedora in mano, viene pugnalato e cade dalla scalinata che l’aveva condotto al primo piano del Bates Motel. L’erotismo del pericolo, a ogni gradino. L’estasi del terrore, che perseguita come una calura opprimente.

Sceglieva le sue attrici perché piacessero più alle donne che agli uomini, e le preferiva di bassa statura, sia perché così sarebbero venute meglio nei primi piani, e sia perché il pubblico «ama vedere la testa riccioluta dell’eroina posarsi sul virile petto dell’uomo».

Nel corso di una conversazione con Andy Warhol disse di aver visto dei video pornografici solo una volta nella vita, ben dopo i sessant’anni e per puro caso. Lui, il voyeur! Lo spione! Un solo filmetto pornografico in tutta la sua vita!

Una vita di apparizioni

Negli anni Sessanta e Settanta gli organizzatori di miss Mondo e miss California si rivolgevano a lui per presiedere la giuria dei loro concorsi di bellezza. Sir Alfred declinò le gentili proposte.

Una vita di camei, di apparizioni fantasmatiche. La prima volta comparve seduto di spalle nella redazione di un giornale. Un’altra volta, vestito da cowboy, consegnava una lettera. Ha giocato a bridge sul treno nell’Ombra del dubbio. Metteva a punto un orologio a pendolo nella Finestra sul cortile.

In un altro film portava una borsa che conteneva uno strumento a fiato. In Intrigo Internazionale saliva su un bus. All’inizio compariva nei suoi film per risparmiare su una comparsa, poi è diventata «una superstizione e dopo ancora una gag», come confessò a François Truffaut.

Un interesse per l’omicidio

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All’intervistatore della Paris Review che gli domandava se fosse ossessionato dalla violenza, William Faulkner rispose che è come chiedere a un muratore se per caso sia ossessionato dal martello. Hitchcock era ossessionato dalla violenza, o la considerava come il martello quel muratore semplicemente un attrezzo del mestiere?

C’è quel momento in Caccia al ladro in cui Jessie Royce Landis spegne una sigaretta in un uovo appena cucinato. O la ferita sulla mano di James Stewart nell’Uomo di Laramie, o la violenza in Un bacio e una pistola. E poi la scena delle coltellate nella doccia in Psycho. Ma non era un regista violento. Gli interessava più l’omicidio che non la violenza.

Si spaventava facilmente, lo confessò in un articolo per una rivista francese. Raccontò di quando a quattro o cinque anni si svegliò una notte di soprassalto, si sedette sul letto e chiamò la madre. Nessuno accorse nella sua cameretta e perciò, nel buio, lasciò il letto e si mise a ispezionare la casa.

Quando arrivò in cucina aprì la dispensa, e trovandoci della carne fredda iniziò a mangiarla, mentre piangeva per la paura. Da quella volta, disse Hitch, due sono le cose più ribrezzevoli per lui: la solitudine al buio e la carne fredda. La paura, sosteneva, “è una sensazione che la gente ama provare quando è certa di trovarsi al sicuro».

Morì di insufficienza renale nell’aprile del 1980, e, con un congedo per nulla scontato per un cattolico nato nell’ultimo anno dell’Ottocento, le sue ceneri vennero disperse nell’oceano Pacifico.

Avrebbe voluto fare l’avvocato penalista, forse fu quello il rammarico più grande. Da oltre un secolo Hitch tiene noi tutti sull’orlo della poltrona. E lo ha sempre fatto con il suo classico aplomb imperturbabile, un po’ come quel poliziotto che durante la turbolenta, agitata sequenza dell’assedio nell’Uomo che sapeva troppo, si prepara tranquillamente una tazza di tè.

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