Qual è l’estetica del presente? Ogni epoca possiede degli elementi distintivi, dettagli che ci permettono di datare una scena al primo istante, di collocare un’immagine in un secolo, un decennio, un periodo della storia.

Dai capitelli dorici ai pantaloni a zampa d’elefante, dalla prospettiva rinascimentale agli sfondi dorati bizantini.

Ecco, se dovessi scegliere un singolo elemento, una sola “atmosfera” che rende riconoscibile questi anni indicherei la tipica estetica delle immagini generate dall’intelligenza artificiale.

Immagini perturbanti

Da qualche tempo sono state rese utilizzabili anche dal grande pubblico di internet, intelligenze artificiali – o meglio, reti neurali – capaci di produrre un output visivo (un’immagine) a partire da un input testuale (una descrizione fornita dall’utente).

Ora, che il prodotto di tali elaborazioni sia definibile come “arte” è argomento troppo vasto per queste righe (nel caso foste interessati vi rimando alla discussione svoltasi in diversi luoghi della rete tra l’artista Lorenzo Ceccotti e il filosofo Francesco D’Isa), e poi non mi interessa ora: l’estetica di un’epoca non è per forza definita da qualcosa di artistico.

Quello che mi colpisce è che in tutti i risultati ottenuti con questa tecnica (almeno per ora, in futuro chissà) c’è sempre “qualcosa che non torna”.

Un particolare strano, un elemento sfuocato, strisciato, incongruo, un occhio troppo lontano dall’altro, una mano con le dita troppo lunghe, un dettaglio non euclideo, cose così.

Anche dietro all’immagine più tranquillizzante e pacifica, si insinua così sempre un elemento perturbante, misterioso, weird, strano, direbbero gli inglesi. È la sensazione dell’essere guardati con gli occhi della macchina. Di essere osservati dalla macchina.

L’occhio della macchina

Ci pensavo sfogliando un’opera indubbiamente weird e perturbante, ma anche affascinante, torbidamente seducente.

Fastwalkers di Ian Manouach (D editore) è un fumetto scritto e disegnato da algoritmi GAN e GPT-3, reti neurali addestrate per l’occasione con immagini tratte da anime e da hentai.

Cosa vuol dire? Vuol dire che Manouach (artista che già ha lavorato al confine tra fumetto e arte contemporanea: Onepiece è la raccolta in un monoblocco fisicamente illeggibile delle 25000 pagine del manga di Eiichiro Oda; oppure la traduzione in lingua congolese di Tintin in Congo, famigerato episodio criticato per il suo razzismo del famoso fumetto franco-belga) e il suo staff hanno dato in pasto alla macchina migliaia di tavole e frame di manga, anime (cartoni animati giapponesi) e hentai (fumetti erotici giapponesi), e partendo da lì hanno fatto in modo che generasse delle immagini originali, che dessero vita a una storia.

Ne è uscito questo strano libro di artista, un hentai futuristico, cyberpunk, morboso, cronenberghiano, che si muove in un territorio tra l’erotismo e l’inquietudine, l’eccitazione e la macchina.

Che cos’è il contemporaneo?

Non so se le immagini generate dalle IA siano arte. Di certo però sono un sintomo: nel loro essere immagini senza oggetto (non rappresentano, nonostante tutti i loro sforzi, la realtà ma, con tutte le loro imperfezioni e smagliature, qualcosa che alla realtà allude ma che con essa non coincide) sono il sintomo del nostro desiderio di avere una rappresentazione del presente, qualcosa che gli dia ordine e senso.

E la nostra costante impossibilità di raggiungerlo, questo senso, questa rappresentazione. Se, per definizione, il contemporaneo è ciò verso cui siamo ciechi (si veda Che cos’è il contemporaneo di Giorgio Agamben, Nottetempo), perché siamo dentro al suo cono d’ombra, il contemporaneo di questo Ventunesimo secolo e di questi ultimi anni è ancora più opaco e imprendibile.

Un interregno

Mattia Salvia in un breve ma sagace libro dal titolo Interregno. Iconografie del XXI secolo (Not) ricorda un episodio di qualche anno fa.

Quando nel 2019 ci fu l’”estate nera”, o meglio rossa, dei grandi incendi che sconvolsero l’Australia, la California e altre regioni, i nostri feed e le nostre timeline erano invase da immagini dei disastri particolarmente inquietanti: tutte virate al rosso, sembravano uscite da Blade Runner 2049, i colori infernali nonostante non ci fosse nessuna postproduzione.

Si capì presto che quell’effetto era causato dagli obiettivi degli smartphone e delle macchine fotografiche che non erano progettati per “aspettarsi” dei cieli come quelli anneriti dagli incendi, o una luce come quella filtrata dalle fiamme e dalle nubi. Insomma, le nostre macchine non erano preparate per vedere l’apocalisse.

Il libro di Salvia è interessante e vale la pena di leggerlo per due motivi principali. Il primo è che parte da una consapevolezza che abbiamo avuto tutti almeno qualche volta in questi anni: non si capisce più un cazzo. È tutto troppo.

Le crisi si succedono sempre più velocemente, immersi in una centrifuga ansiogena insostenibile in cui tragedia e farsa, ironia e dramma si succedono senza soluzione di continuità, anzi in contemporanea, in cui le crisi sono sistemiche e interconnesse, lontane e vicine, quasi intime, entrandoci nei cervelli in ogni istante attraverso i social media.

Non solo ciò che un tempo sembrava indicibile oggi è diventato dicibile (con il potere stesso, pensiamo a Trump o i fascio-sovranisti nostrani, che si incarica di questa funzione “profanante”), ma anche ciò che sembra irreale (e quindi impossibile) è reale: da Capitol Hill presa d’assalto dagli sciamani, a città in quarantena come nei film di fantascienza.

E quindi eccoci tornati a un problema di rappresentazione. E se l’unico modo per averne un’immagine, per quanto frammentata, assurda, contraddittoria fosse guardare i meme?

Questo è il secondo aspetto interessante del libro di Salvia. Come un piccolo Warburg dell’assurdo contemporaneo, Salvia parte da un archivio di meme e immagini diventate “iconiche” (raccolte in questi anni nel suo progetto online Iconografie), frammenti di viralità che abbiamo visto tutti – più o meno consapevolmente – in questi anni: dal covfefe di Trump, al ranocchio Pepe simbolo della alt-right e poi utilizzato anche dai talebani per trollare (?) l’occidente, dallo “Stonk man” che glossa le bolle cripto-finanziarie, al cagnotto che dice «Va tutto bene» mentre intorno la stanza è in fiamme.

Sono schegge di “spirito del tempo”: da sole incomprensibili, mute, ma che insieme possono restituire appunto un’immagine.

E l’immagine risultante è quella della “fine della fine della storia”. Lungi dall’essere approdati nella “timeline sbagliata” (come recita un altro meme, che scherza con l’ipotesi che siamo scivolati in un universo parallelo in cui tutto va a rotoli), forse quello che era, per così dire, sbagliato, o comunque un abbaglio, era il periodo di relativa pace degli anni Ottanta e soprattutto Novanta: «La pax americana nata con la fine della Guerra fredda ha prodotto i suoi seppellitori, e lo stesso processo che tanto a lungo ha arricchito l’occidente – globalizzazione, delocalizzazione selvaggia della produzione e finanziarizzazione dell’economia – si è oggi rovesciato nel suo opposto».

Siamo al «ritorno stabile del caos sistemico», come scriveva l’economista Giovanni Arrighi nel 2009. O, detto altrimenti, in quel periodo che Gramsci definiva di interregno: quel tempo abitato dai mostri, sospeso tra un passato che non vuole ancora morire e un futuro che non può ancora nascere.

La fine della fine della storia

Alex Hochuli, George Hoare, Philip Cunliffe ne scrivono più diffusamente proprio in La fine della fine della Storia (Tlon editore): quella che Fukuyama aveva definito “fine della Storia” era un’età postpolitica, in cui i conflitti erano silenziati, la politica era mera gestione di tecnicalità, e più o meno vaste fasce di ceto medio occidentale avevano trovato una sistemazione confortevole all’ombra dell’ordine liberale.

Nel momento in cui la coperta dello “shadow welfare” goduto grazie al basso costo della manodopera globale viene meno, sempre più ampie porzioni di popolazione vengono esposte a diseguaglianze violente e alla paura del declassamento e dell’impoverimento.

Producendo una rabbia che viene facilmente incanalata prima dai populismi poi, almeno in Italia, da quello che lo studioso Gilles Gressani ha definito “tecnosovranismo”. Ma in questo ancora una volta l’Italia è un laboratorio, un crogiolo in cui viene forgiato il futuro. Sorpresa: la fine della fine della storia coincide con l’italianizzazione della politica su scala globale.

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