Incontro Stephen Wilkes nel piccolo giardino all’interno dell’Auditorium Parco della Musica dove si è tenuto il 18esimo Festival delle scienze. La conferenza di Wilkes, grande fotografo che lavora in tutto il mondo, portava il titolo Fotografare il mondo ed è stata una delle più seguite.

Con lui Marco Cattaneo, direttore di National Geographic Italia, che lo ha presentato al pubblico italiano con competenza e passione. Wilkes è un artigiano digitale, uno storyteller come lui stesso si definisce, perché esalta le straordinarie potenzialità del digitale stesso con la pazienza e il processo mentale dell’occhio abituato ai tempi dello scatto analogico.

Stephen come è cominciata la tua avventura di fotografo?
Ero molto giovane quando ho cominciato ad appassionarmi alla fotografia e nel 1983 ho aperto il mio studio a New York, con una disponibilità molto aperta verso i vari settori della fotografia: moda, reportage, sport, ambiente e altro. Ho fatto anche la campagna fotografica per Michael Jordan nel 1989. Poi nel 1998 vengo invitato a fotografare gli edifici di Ellis Island che accoglievano i migranti che approdavano negli Usa, ma che dovevano essere ‘visitati’ e schedati.

Era un lavoro che doveva durare un giorno solo e che invece tra riprese e postproduzione si è protratto per anni. Il risultato è quello di un reportage di archeologia industriale tra i più straordinari della fotografia contemporanea, con colori che sembrano riportare alla luce la vita di quelle persone: donne, uomini, bambini e vecchi che aspiravano ad un nuovo mondo.

Agli inizi degli anni 2000 si affaccia il digitale nel mondo della fotografia e tu ne cogli aspetti molto interessanti in termini di soluzioni. È da lì che inizia il percorso di Day to Night?
Negli anni precedenti mi ero interessato a creare delle fotografie che raccontassero scene di vita ricche e molto animate, con tempi diversi nella stessa opera. Confesso che il quadro di Pieter Bruegel il Vecchio I mietitori è stato per me fonte di grande ispirazione. Così come David Hockney mi ha ispirato attraverso il collage della sua opera Romeo e Giulietta, con Leonardo Di Caprio o le suggestioni di Escher, in particolare la sua meravigliosa opera Day and Night. Nella straordinaria opera di Bruegel la scena è composta di diverse scene e così ho cominciato a pensare ad un processo di ripresa con un grande dorso digitale con cui poter riprendere lo sviluppo del soggetto fotografato nell’arco di 24/36 ore, con un mio intervento diretto per ogni scatto. Sono stato in piedi per 26 ore quando ho ripreso il vulcano in Islanda per la fotografia Fagradalsfjall e ho passato più di un giorno e mezzo piazzato su una struttura aerea per riprendere gli gnu, gli elefanti e altri animali per scattare le fotografie che poi sono andate a comporre Serengeti Park, una specie di giardino dell’Eden (che è stato anche esposto nel Foyer Sinopoli dell’Auditorium e che si può ammirare nella mostra di Palazzo Blu a Pisa sino a luglio). Proprio su questa mia opera Sebastiao Salgado, che usa  la fotografia come messaggio epico – anche apocalittico –, ha dichiarato questo è biblico.

Questo processo così complesso e lento mi ricorda un po' i nostri mosaici medievali. È così?
Sì, è giusto, ho seguito lo stesso pensiero quando ho visto dei mosaici in India; penso proprio di seguire un procedimento analogo, perché non solo eseguo personalmente ogni scatto delle migliaia che vanno poi a comporre un’unica grande immagine, ma il lavoro di postproduzione è lungo e lento. Per me è stato molto utile studiare la teoria dello spazio-tempo di Einstein perché il procedimento che seguo è un lento e progressivo accumulo di energia (gli scatti) che si condensano poi in una forma definitiva di forte compressione spaziale.

Ho sentito fortissima l’attrazione di quanto si viva in modo diverso uno stesso spazio durante un’intera giornata, nel suo movimento di memoria, nella sua profondità, nei suoi infiniti dettagli.

Possiamo dire che le tue fotografie siano delle “opere mondo”?
Sì, soprattutto se pensiamo all’architettura che presiede al processo di ripresa e al risultato che non è mai scontato, che le foto siano di natura assoluta come nel caso degli albatri o dei flamingo come in quelle di luoghi fortemente antropizzati come Parigi, Città del Vaticano o Coney Island.

La ricostruzione di un luogo attraverso un’unica immagine richiama ad un messaggio epico dell’opera, perché corrisponde al percorso che voglio costruire pensando che la fotografia per me non può essere un’istantanea, ma un’epopea.

Quali sono i precedenti cui ti ispiri maggiormente?
Certamente Ansel Adams e Alfred Stiglitz, i quali studiano lo spazio e il soggetto che riprendono con un occhio profondo, vanno all’essenza di una dimensione del tutto nuova e personale del rapporto tra loro, artisti, e il mondo che interpretano e ricreano. Basti pensare alla stupenda serie di fotografie di Ansel Adams del Parco di Yosemite.

Si parla molto in questo periodo dello sviluppo dell’Intelligenza Artificiale anche in fotografia e della possibilità che una “macchina” possa creare autonomamente dei soggetti e degli spazi ‘fotografici”. Cosa ne pensi?
L’Intelligenza artificiale non è fotografia, è – appunto – illustrazione artificiale. Il procedimento che eseguo per realizzare Day to Night è del tutto manuale, personale, unico. La costruzione di immagini attraverso l’IA che crea immagini irreali ma credibili, come quella del papa con il piumino sino ai piedi, possono creare disinformazione e spaesamento e pongono un grande problema di proprietà intellettuale.

Dobbiamo utilizzare il machine learning per sviluppare sempre migliori tecniche di ripresa, ma rimane centrale il punto di vista dell’artista, nel mio caso del fotografo.

Certo una macchina potrebbe creare infinite frequenze di immagini che si vanno poi a comporre in un unico quadro, ma ciò che distingue il mio risultato è la “mia” presenza su quel “palcoscenico” e la “mia” decisione di scegliere la sequenza di scatti decisiva per realizzare il “mio” quadro.

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