Nell’anno di grazia 2021 il festival di Cannes assegnò la seconda Palma d’oro femminile della sua storia a Titane, di Julia Ducournau. A noi indigeni della limitrofa Italia più del film resta impresso nella memoria il pensierino esilarante twittato da Nanni Moretti, a corredo di un selfie allibito. «Invecchiare di colpo. Succede. Succede soprattutto se un tuo film partecipa a un Festival. E non vince. E invece vince un altro film in cui la protagonista rimane incinta di una Cadillac. Invecchi di colpo. Sicuro».

Non serviva lo scorno della sconfitta per trovare quella Palma indigesta. Un trionfo “avvelenato”, rischioso, anche secondo la  – per molti – miracolata autrice, che citava Steven Soderbergh: «D’ora in poi potrà solo andare peggio».

Nessuno però può negare che la regista francese, classe 1983, giri da padreterno. Mi scuso per il maschile, ma padreterno con la A non è ancora entrato nell’uso. Ducournau a Cannes è in concorso, quattro anni dopo, con Alpha. È il suo film numero tre, tutti con titolo di una sola parola, perché – anticipava in un’intervista esclusiva alla rivista Première – «una frase significa già orientare la percezione di un film». La novità è che evade dal “genere” – il body-horror – che l’ha catapultata nel Gotha, per confrontarsi senza guardrail con i propri traumi e le proprie paure. In Italia, come per Titane, distributore è IWonder Pictures.

Il non detto 

Data al 1983 la scoperta del virus dell’Aids. Nell’ingegnosa metafora di Alpha, paura, vergogna e colpevolizzazione sessuale dei contagiati come “peccatori” continueranno a riprodursi senza sosta nelle generazioni successive, al primo sospetto di un morbo infamante. Dopo la liberazione degli anni Settanta, il sesso è ridiventato un tabù, i rapporti umani sono brutalmente regrediti, le nostre società sono perseguitate dallo spettro dell’untore’ e ansiose di perseguitarlo.

Come “untore” è perseguitata dai compagni e dal preside della scuola la ragazzina Alpha (Mélissa Boros), che sembra manifestare strani sintomi di un’epidemia immaginaria che trasforma la carne in pietra. Muori calcificato. La madre dottoressa (che è la bellissima iraniana Golshiteh Farahani) ha visto il fratello tossico (Tahar Rahim) morire di quel male. Tutto il film è filtrato dalla paura di Alpha, che a quel decesso ha assistito. La loro è una famiglia cabila immigrata in Francia: marocchini dell’Atlante, con un’etnia e una lingua berbera propria. Per le credenze popolari – di cui la vecchia nonna è custode – quel morbo è il “vento rosso”: gli indemoniati della nostra cultura cattolica. Ma la famiglia è l’unica ancora, l’ultimo rifugio di aiuto e tolleranza possibile, in una comunità sociale definitivamente ostile e disgregata.

Il vero filo rosso nella filmografia di Cournau sono le tragiche ripercussioni del “non detto”. La parola d’ordine, per ogni deviazione dalla normalità, è nascondere. «I vicini hanno visto?» chiede la nonna. E la madre: «Lo hai detto a qualcuno?», «Parla piano, ci guardano...». Tacere, nascondere, vergognarsi, negare: per la regista è un’infezione sociale peggiore di tutti i mali.

Fatto per dividere

A titolo di istruzioni per l’uso, posso dirvi che il passato, nella narrazione, ha i colori vividi delle vecchie Kodak usa-e-getta, mentre il presente è livido e desaturato. Ma il presente non è realistico, è carico di fantasmi, ricordi, proiezioni di Alpha. E va detto, per onestà, che con l’aiuto degli effetti speciali il filtro deformante di memoria emotiva e fantasia certifica un grande talento registico.

Come raccordo tra passato e presente c’è un tatuaggio, una A forse causa della nuova infezione, doppione allegorico del rigo di pennarello tracciato da Alpha bambina per congiungere i bubboni dello zio malato. Crateri che sprigionavano insetti repellenti. Eroine cannibali, o rappezzate col titanio, o sanguinanti dagli arti, comunque repulsive per le platee mainstream: di questo è fatto l’universo Cournau. È fatto per dividere il pubblico, non per unirlo. Forse è coraggio, forse provocazione. Fuori dal coro, a me non dispiace.

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