Nei primi Anni Dieci, dopo aver gettato al vento 7 monoclonali falliti e decine di miliardi di dollari, le aziende di Big Pharma chiudono il filone delle demenze. È uno dei passaggi chiave nella storia dello studio al contrasto della malattia neurodegenerativa, caratterizzato da ostinazioni e fraintendimenti. Agnese Codignola ha ricostruito tutto in un saggio-racconto
Trent’anni di ricerca sprecati e, probabilmente, un fiasco colossale dell’industria farmaceutica si snodano tra le pagine di Alzheimer S.p.A. Storie di errori e omissioni dietro la cura che non c’è (Bollati Boringhieri): un saggio-racconto che ha appena scritto Agnese Codignola, giornalista scientifica ed ex ricercatrice con dottorato in farmacologia.
L’inizio del tutto pare un film, forse da intitolarsi Auguste D. – Una storia di oblio. Auguste Deter, sarta tedesca nata nel 1850 e morta 56enne nella clinica psichiatrica di Francoforte, dov’è curata dal giovane neurologo Alois Alzheimer, comincia a 51 anni a manifestare paranoia, gelosia, perdita di memoria, disorientamento, rabbia.
Oggi è considerata la “paziente zero” della malattia di Alzheimer: nel suo cervello, il medico può studiare, poi con l’aiuto del suo assistente, Gaetano Perusini, le tracce di una patologia precisa. E cioè, strani fasci di fibre all’interno delle cellule nervose (saranno dette fibrille tau), e, al loro esterno, ammassi di una sostanza gelatinosa che, più tardi, si scopriranno essere placche di proteina beta amiloide. Nonché un’ossessione della scienza.
Personaggi da romanzo
Auguste e Alois. Ma sono molti i personaggi indimenticabili del libro. Solo per citare, Carol Jennings, l’insegnante che negli anni Ottanta (bisogna aspettare decenni dopo gli studi di Alzheimer-Perusini, prima che la malattia dell’oblio esca dall’oblio e ingolosisca il business) scrive della sua disastrata famiglia a un genetista inglese, John Hardy, e lo indirizza verso l’individuazione della mutazione del gene APP (Amyloid Precursor Protein: codifica per il precursore della proteina beta amiloide).
O il duo ultracattolico Fourtillan-Joyeux, che a pochi mesi dall’esordio del Covid, cerca nel sangue dei pazienti l’inesistente molecola della valentonina, perché così chiede Dio durante estasi mistiche. O Chris Hemsworth, la star del supereroe Thor, che scopre da un’analisi del Dna di avere due copie del gene APOE4 e di essere ad altissimo rischio di sviluppare un Alzheimer. Ironia della sorte: Hemsworth, bello e super fisicato, al momento della rivelazione ha 39 anni ed è in procinto di affrontare Memory, la quarta puntata di Limitless, serie di National Geographic coprodotta da Darren Aronofsky e dedicata al contrasto dell’invecchiamento.
Ma torniamo a Hardy, l’ambizioso Sir John Anthony Hardy, da tempo sulla via del Nobel. Nonostante avesse “solo” scoperto una variazione del genoma molto rara, nel 1991 è omaggiato dal New York Times con un articolo intitolato Scoperta la mutazione che causa l’Alzheimer.
Grazie a lui è servita su un vassoio d’argento una traiettoria di ricerca durata decenni e costata un’immensità di denaro, pubblico e privato. Che però non ha portato da nessuna parte. Codignola sintetizza: «Dal 2021 sono stati approvati tre anticorpi monoclonali (ndr: proteine con alta specificità nei confronti di un dato antigene, prodotti grazie all’immunologia cellulare e all’ingegneria genetica), nonostante i dati cognitivi dicessero che non servissero a nulla.
Uno è stato ritirato, degli altri due il destino è incerto. Accanirsi contro le placche amiloidi, che si formano anche attorno ai vasi cerebrali, può essere pericoloso: se le sciogli rapidamente, e soprattutto nei casi di angiopatia amiloide cerebrale, le pareti dei vasi possono lacerarsi, causando un ictus. Il paziente passa così in poche ore da un’iniezione di anticorpi alla terapia intensiva».
Per capire il ragionamento, va esaminata quella che l’autrice chiama la “versione di Hardy”. Ovvero, la Teoria della cascata: il cosiddetto “elefante-amiloide” che ha calpestato la moderna ricerca di base utile a comprendere la malattia.
Il dilemma delle placche
Non per niente si è parlato persino di “mafia dell’amiloide, tant’è che tra i capitoli di Codignola si narra una sorta di thriller immotivato. Vediamola. Dal precursore APP deriva la proteina beta amiloide, che, rilasciata dai neuroni all’esterno, si accumula negli interstizi cellulari e forma placche; intanto nelle cellule si assemblano le fibrille di proteine tau. Placche e fibrille, a cascata, appunto, sarebbe la causa della malattia di Alzheimer e della morte neuronale. Quindi vanno curate le placche. Chiaro e lineare.
Peccato che circa il 40% dei malati non le abbia, e che molti malati con placche, invece, non presentino demenza. E che la quantità di beta amiloide nel liquido cerebrospinale diminuisca al posto di aumentare, man mano che l’Alzheimer progredisce. Peccato, soprattutto, che lo scioglimento delle placche non porti quasi mai con sé l’arresto del declino cognitivo.
Un pensiero unico. Che ha seminato «articoli scientifici taroccati» e «contiguità sospette», dice Codignola. «Che cosa c’è e c’è stato nella mente dei ricercatori, in quest’assillante ostinazione?», si chiede. Per poi puntare il dito contro certo narcisismo del mondo della ricerca. Nei primi Anni Dieci, dopo aver gettato al vento 7 monoclonali falliti e decine di miliardi di dollari, Pfizer, AstraZeneca, GlaxoSmithKline, Merck e altre aziende di Big Pharma via via chiudono il filone delle demenze.
Eppure, non si molla con i monoclonali che bersagliano l’amiloide. L’aducanumab ottiene l’approvazione dell’U.S. Food and Drug Administration nel 2021, tra polemiche, opacità e dimissioni di membri del panel; segue il lecanemab, approvato nel 2023 (l’Ema europea ha appena rivisto il suo parere negativo); e poi il donanemab, approvato nel 2024.
I costi di queste terapie sono esorbitanti, i miglioranti cognitivi nulli o risibili e ci sono opacità nella segnalazione di alcuni decessi di pazienti nella fase di estensione del farmaco.
La fiducia nei giovani
Ma a questo punto il libro s’impenna e sceglie il paradosso del thriller a lieto fine. Diventando una dichiarazione d’amore al metodo della scienza, soprattutto quand’è costretto ad ammettere (o contestualizzare!) i suoi peccati e a cercare la redenzione nel pensiero divergente degli scienziati eretici, nei ricercatori puri e “lenti”, nei giovani studiosi, nei piccoli passi, nella condivisione di successi e fallimenti, nelle start up disposte a uscire dagli schemi.
Segnali? Per azzoppare l’elefante-amiloide magari si deve ripartire dagli studi (contemporanei a quelli di Hardy) di Ralph Nixon, oggi direttore del Center for Dementia Research, del National S. Kline Institute for Psychiatric Research di New York, e di Ruth Itzhaki, docente emerita dell’Università di Manchester e Oxford.
E se le placche fossero una reazione e non la causa dell’Alzheimer? Se segnalassero uno smaltimento difettoso del malfunzionamento di cellule già peraltro morte o morenti? Di più: e se fossero addirittura una protezione-barriera contro l’infezione, sia batterica che virale, e l’infiammazione che ne deriva? E se, date le premesse incoraggianti, fosse da promuovere lo scudo offerto dalle vaccinazioni, da quelle contro la tubercolosi e l’herpes zoster all’antinfluenzale, perché manterrebbero il sistema immunitario vispo e attivo nella rimozione dei detriti cellulari? Si stanno aprendo altre frontiere con lo studio degli squilibri nei lipidi delle cellule nervose e del microbiota intestinale.
I fattori di rischio
Intanto, un bagno di realismo: per curare l’Alzheimer, patologia multifattoriale che nel 2030 colpirà 75 milioni di malati nel mondo, al momento serve non tanto il farmaco miracoloso (che non c’è), ma un cocktail di molecole ad azione differente. Sapendo che tenere a bada tutti i 14 fattori di rischio identificati dagli esperti convocati dalla rivista The Lancet può ridurre la possibilità di sviluppare un Alzheimer di uno sfolgorante 50%.
Eccoli: basso livello di scolarizzazione, ipertensione, perdita di udito, fumo, obesità, depressione, inattività fisica, diabete, scarsa socialità, alcol, traumi alla testa, inquinamento, colesterolo cattivo, patologie della vista. Sì, non è mai troppo presto per pensarci. In fondo, Alzheimer e Perusini avevano capito già molto.
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