È domenica 15 gennaio, mi ritrovo a Cesena contro la mia volontà. Mezzogiorno e tre quarti, un freddo cane, o dovrei dire un freddo pinguino, o qualcosa di etologicamente più sofisticato. Un freddo caribù. (Come mai io mi accanisca, appinguinisca, accaribuisca nella ricerca di metafore animali meno scontate, risulterà chiaro poi).

Nella desolazione dell’ora di pranzo domenicale, le corsie dell’autostazione sono vuote sotto le tettoie. Non c’è autobus vivo. Un tizio attraversa il piazzale, si avvicina rannicchiato nel cappuccio della felpa. Mi chiede quando passa il 92.

«Fra mezz’ora», gli dico.

«Sicuro? Come lo sai?»

«Ho guardato qui», rispondo sventolando il telefono.

«Ah, ma quegli orari lì sono sballati», fa lui.

«Speriamo di no», ribatto, e intanto penso: e se ha ragione? E aggiungo, sempre mentalmente: vaffanculo. Ma non è a lui che sto mandando maledizioni. Vaffanculo Nicola Sarti. E mannaggia a Niccolò Ammaniti.

Se sono qui al gelo è colpa sua. Ero in treno, dovevo scendere a Forlimpopoli, e per quel bellimbusto del suo personaggio Nicola Sarti ho mancato la mia fermata. Ero immerso nella scena della Trattoria La Quinta Stagione, quando Sarti invita a pranzo Maria Cristina Palma, la protagonista, e le porta in regalo un cubo di polistirolo con un nastro dorato.

Che ci sarà dentro quel cubo, eh, Tiziano? Che ci sarà mai? Me lo ripeto in testa, immaginando una vocina satirica che mi dileggia. «Idiota», mi dico. «La curiosità ti ha fatto fare una figuraccia con gli organizzatori della tua lettura scenica di oggi. E ti sei pure giustificato: “Non sono sceso alla stazione giusta perché mi sono incantato a leggere il nuovo romanzo di Ammaniti”. Ma si può?».

«Potenza della letteratura!», è il messaggio di risposta degli organizzatori, pazienti come soltanto con un fregnone.

Leggere in trance

LaPresse

Ammaniti mi manda in trance, quando leggo i suoi libri ciò che c’è intorno svanisce, la sua allucinazione si sostituisce al mio mondo. È successo puntualmente anche con La vita intima.

Potrei raccontarvene altre, di volte in cui mi sono calato nelle sue pagine come un palombaro fra le Abyssocottidae. Quella che ricorderò adesso non accadde in un capitolo, ma con una trama. Quindi non nelle sue pagine, ma con la sua voce.

Eravamo in vaporetto, parecchi anni fa.

Niccolò era venuto a Venezia per qualche settimana, allontanandosi dalle turbolenze romane, per concentrarsi a scrivere. Idea bizzarra, per noi che Venezia la vediamo come un vortice nevrotizzato di comitive, serenate in gondola alle undici del mattino, carbonara con spritz a metà pomeriggio. E invece pare che in città non sbarchino solo turisti, ma anche incursori più discreti, quasi monacali: studiosi, artisti, pensatori e poeti qui si trovano benissimo, per cogitabondare, ponderare, fantasticare. Fra di loro, in quel periodo, c’era anche Niccolò.

Quel giorno eravamo tre o quattro amici, in vaporetto – l’autobus acqueo veneziano – sul Canal Grande, e lui attacca a raccontarci la trama di Come dio comanda, il romanzo che sta scrivendo. 

Rimaniamo ad ascoltarlo, in piedi sulla plancia esterna, in mezzo ai forestieri che si entusiasmano dei palazzi e gli indigeni che si lamentano dei forestieri.

Rendendoci conto di cosa ci sta confidando, ci scambiamo sguardi un po’ tesi, preoccupati per lui. Siamo pur sempre su un mezzo pubblico, e lui è Niccolò Ammaniti. In quegli anni il suo romanzo Io non ho paura ha fatto il giro del mondo. E se qui, vicino a noi, sul vaporetto, qualcuno stesse origliando? Se quella trama gliela rubano? Se scrivessero in rete “oggi in vaporetto a Venezia ho sentito Ammaniti che raccontava la storia del suo prossimo romanzo: eccola”?

Lui se ne frega, ha uno scopo ben chiaro in testa.

Vuole collaudare la sua trama. Perché? Raccontarla a voce lo obbliga a darle forma, a saggiarne la tenuta: non si limita a rimuginarla in testa, deve coagularla in una sintassi, una concatenazione di prima-e-dopo. E in più, gli serve per vedere l’effetto che fa.

Qual è stato l’effetto su di noi, a bordo di quel vaporetto?

La nostra bolla di attenzione, da gracile pellicola, si è consolidata in un geoide roccioso, impermeabile a qualsiasi cosa ci stesse accadendo intorno.

Dopo dieci minuti – o dieci giorni, chi può dirlo – qualcuno di noi si ridesta e dice: «Oh cazzo! Dovevamo scendere tre fermate fa!»

L’investimento più grande

Lo storyboard del cartone Alla ricerca di Nemo (LaPresse)

Il senso pieno di quell’episodio l’ho capito meglio qualche anno dopo. Ero fra il pubblico, ascoltavo Niccolò presentare un altro suo romanzo, forse a un festival, o al Salone del Libro, non ricordo. Ma quello che disse ce l’ho inciso indelebile.

Per far capire come la pensava sull’arte del romanzo, lui citò un’intervista ai produttori di Alla ricerca di Nemo, il film della Pixar.

Tutti ne avevano ammirato gli effetti visivi, le iridescenze sottomarine, i riflessi sulle squame, le gibigianne (si favoleggiava di programmatori specializzati nel far fluttuare le alghe, che per anni avevano lavorato applicandosi solo a quello).

Ebbene: lì al festival letterario, Niccolò racconta al pubblico che ai produttori di Nemo venne chiesto: «Su quale aspetto del film avete investito di più? Sugli effetti 3D? Sulla programmazione digitale? Sulle star che prestano la loro voce ai personaggi?» Niccolò riferì la risposta che lo aveva colpito tanto, perché in un certo senso riguardava anche lui, lo faceva sentire fiero della sua arte di scrittore: «Più di qualsiasi altra cosa, abbiamo investito sulla storia».

La cura per le storie

Niccolò Ammaniti è un inventore di storie imbattibile. Le cura scrupolosamente a tutti i livelli. Prima di tutto, l’idea essenziale; poi l’articolazione della trama; e infine la scrittura narrativa, in tutta la sua vividezza. Leggerlo è una festa, le sue parole hanno il tocco magico, sanno quali pulsanti premere per suscitare immagini in chi legge.

Ho avuto il privilegio, più di una volta, di sentirlo esporre l’idea, gli spunti, le prime ipotesi di storie, comprese quelle che ha messo da parte e non ha più sviluppato. E mi ha raccontato trame embrionali che poi, a distanza di anni, sono diventate romanzi, o serie tv, perfino episodi-pilota di cartoni animati. La prima scena del Miracolo, quando una squadra di agenti speciali entra in un sotterraneo allagato di sangue: la sua versione a voce mi impressionò quasi più di quella filmata in video. O il prete con il mirino a forma di crocifisso sul fucile, sterminatore di zombie che infestano la sua chiesa, in un cortometraggio d’animazione: mi fece ridere e spaventare insieme, quando mi descrisse la storia che aveva in mente. Il racconto del robottino puliscipiscine, finito in Io e te, che nel romanzo viene sagacemente presentato come un congedo infantile, incongruo e tenero, a una nonna moribonda sul letto d’ospedale.

Non ho mai assistito alla terza fase, quella della stesura (non sono un insetto-drone, mica posso intrufolarmi a fissare lo schermo del suo computer quando Niccolò lavora), anche se so bene che si infervora mentre scrive: perché, anche per lui, scrivere è inventare, non è la semplice espansione di una trama. Scrivere romanzi è fantasticare minuziosamente, parola per parola.

Il suo fervore inventivo durante la scrittura lo ha svelato in pubblico, quindi posso riportarvelo; per esempio: subito dopo aver finito di scrivere l’indimenticabile dialogo sulle olive ascolane dei tre balordi ladruncoli, per la sceneggiatura di L’ultimo capodanno, è corso a svegliare la sua compagna, a notte fonda, per leggerglielo: non tanto perché faceva troppo ridere, ma perché era genialmente vero, sgangheratamente umanissimo, perfetto.

L’anima sconfinata

La forza di Ammaniti, che gli invidio un sacco, non sta solo nell’inventare storie, ma, altrettanto, nel mettersi nei panni degli altri. È la qualità pura del romanziere: un talento, un dono, certo; ma anche il frutto di un’attenzione ininterrotta per i nostri simili; dissimili compresi. Il che vuol dire che Ammaniti, nella vita, pur avendo sicuramente, come tutti noi, le sue malinconie, sotto sotto non si annoia mai. Mettersi nei panni degli altri lo salva. Ciò spiega perché dalla lettura dei suoi libri si esce sempre con un sentimento di riappacificazione con la nostra imperdonabile specie, una felicità dello spirito, anche quando racconta storie tragiche. Come mai? La sua capacità di immedesimazione dimostra che gli esseri umani sono una continua sorpresa, e che proprio per questo, perfino quando ci fanno del male, in un certo senso non ci deludono mai. Aveva ragione Eraclito di Efeso, l’anima umana è immensamente vasta, e per quanto la percorri in lungo e in largo non ne troverai i confini. I libri di Ammaniti mostrano che l’anima – tutte le anime, la propria e le altrui – vale sempre la pena di percorrerla; in lungo e in largo e con tutti i mezzi, come fa lui: in bicicletta, in camper, con la sminatrice.

Donne che rimuovono

Non so se è abbastanza chiaro che La vita intima mi ha rapito. Per una volta, però, non voglio fare il bravo recensore che riassume la trama. Un po’ perché con le mie parole la rovinerei. Se ci tenete a saperla, ve la procurate con un clic (secondo me fate male; leggete il libro). Niente favola, allora: vado dritto alla morale. O mythos delòi. Fabula docet. E in questo romanzo, di morali ce ne sono almeno quattro.

La prima. Sono proprio curioso di sapere che cosa ne penseranno le donne. Da qualche tempo in qua, Niccolò Ammaniti tende a scegliere protagoniste femminili. Io credo che sia una mossa dettata dall’ispirazione e dalla strategia. Ormai a leggere libri che non siano gialli o romanzi sul nazifascismo sono rimaste solo le donne. Sono loro a tenere in piedi l’editoria. Lo vedo anche dagli inviti che ricevo nelle scuole e nelle biblioteche: professoresse e bibliotecarie sono lettrici curiose dei contemporanei; gli uomini sono eccezioni. E le lettrici tendono a fidarsi sempre di più delle autrici. Le quali raccontano spesso storie di vittime femminili, vessate o traumatizzate dai maschi. MeToo, sensibilità woke, critica al patriarcato e al male gaze, indignazione per le differenze di stipendio fra i generi, per la mancanza di potere e di rappresentanza politica, per le violenze domestiche e i femminicidi, per il revenge porn, per il linguaggio non inclusivo, per le infamie sessiste della Storia, più che una ricaduta reale sulla società, stanno avendo ripercussioni (piuttosto consolatorie) sull’immaginario. Non credo di esagerare dicendo che, quatto quatto, il romanzo di Ammaniti è la sua presa di posizione narrativa su tutto questo.

La vita intima ha come protagonista Maria Cristina Palma: «La donna più bella del mondo» secondo una fantomatica università e un centro di chirurgia estetica statunitensi; a 42 anni si ritrova moglie del presidente del Consiglio italiano. È comprensibile che in quel ruolo si muova con cautela, e si chieda quanta sincerità o quanto tornaconto c’è in chiunque la avvicini. Una situazione che porterebbe molti alla paranoia.

Nel caso di Maria Cristina, una delle sue reazioni è rinnegare l’ardore sessuale, l’eccitazione condivisa e vissuta con passione, la compartecipazione alle fantasie erotiche realizzate. È più rassicurante attribuirle alle aspettative maschili.

Per quel che conta la mia esperienza, ho trovato che l’indole di questo personaggio corrisponde a quella di un certo tipo di donna (per fortuna non tutte), che si infervora eccome, ma poi, a freddo, rimuove quel fervore, e considera perverso o sporcaccione chi si crogiola nel ricordo. Perciò dico che sono curiosissimo di sapere come reagiranno le lettrici: considereranno Maria Cristina una di loro, o la rinnegheranno come una reproba, traditrice dell’onore femminile? Si metteranno in discussione, o se la caveranno con la solita mossa, respingendo questo personaggio al mittente, cioè all’autore maschio, bianco, di mezza età, occidentale, italiano, romano?

La nostra specie animale

Groundhog Club handler A.J. Dereume holds Punxsutawney Phil, the weather prognosticating groundhog, during the 136th celebration of Groundhog Day on Gobbler's Knob in Punxsutawney, Pa., Wednesday, Feb. 2, 2022. Phil's handlers said that the groundhog has forecast six more weeks of winter. (AP Photo/Barry Reeger)

La seconda morale riguarda la specie umana, che sotto lo sguardo comportamentista di Ammaniti è una specie animale fra le tante. Sono innumerevoli le similitudini fra esseri umani e bestie. A un certo punto ho cominciato a segnarmele a matita. Noi homines sapientes siamo come: spugne marine, gattini, cavallette, pesci gatto, panda, uova di ragno, piccioni, lamantini, leoni di mare, coccodrilli, gazzelle, otarie gravide, oranghi in gabbia, ricci, coccinelle, macachi, acciughe, dinosauri, serpenti, lupi, orsi bruni, licaoni, aragoste, tigri, ostriche, formiche, gamberetti, rane pescatrici, ricciole, testuggini, boa constrictor, farfalle, polipi, cernie, moscerini, pangolini, lontre, crotali, falene.

Uno dei paragoni più belli lo fa un personaggio soprannominato a sua volta il Bruco. Per spiegare terrapiattisti, no vax e complottisti vari, chiama in causa le marmotte sentinelle, quelle che «hanno il compito di fischiare se una minaccia si avvicina». Anche nella nostra specie, «una piccola percentuale della popolazione passa l’esistenza scrutando l’orizzonte. Individui geneticamente portati a non accettare le verità imposte dall’alto. Alla ricerca del pericolo occulto e del complotto, elaborano un’anti-narrazione che li porta a dubitare di ogni avvenimento che per gli altri funziona da collante collettivo. Dubitano di chiunque abbia potere sulle loro esistenze e della veridicità dei fatti acquisiti. E quindi la Terra è piatta, lo sbarco sulla Luna non c’è stato, le Torri Gemelle le hanno tirate giù gli alieni, i vaccini trasformano i bambini in automi e così via. Ma i paranoici hanno un ruolo fondamentale, tenere desta la popolazione, senza di loro saremmo inermi di fronte al pericolo».

Consiglieri e romanzieri

La terza morale è che farcela da soli, anche nelle faccende strettamente personali, è diventato impossibile. Ed ecco che in questo romanzo c’è una pletora di assistenti, consiglieri, personal coach, fitness trainer, exit counselor, spin doctor; e una santona indiana travestita da parrucchiera. Certo, i protagonisti di questa storia sono ricchi e potenti, e possono permetterseli (d’altronde, non è che ne ricavino risultati significativi): ma ne deduciamo che tutti gli altri, cioè noi, senza nessuno che ci dica come cavarcela, siamo destinati a soccombere.

Si potrebbe aggiungere che la mathesis singularis, cioè, secondo Roland Barthes, la conoscenza dell’unicità – non genericamente sociologica ma circostanziata –, lo studio degli individui e dei loro casi specifici (Robinson Crusoe, Elinor Dashwood, Anna Karenina, Josef K., Clarissa Dalloway, Zeno Cosini, Ida Raimundo, Humbert Humbert), nella nostra epoca si è trasferita dalla letteratura alla sopravvivenza quotidiana.   

E con ciò sono arrivato alla quarta morale, quella del narratore, che serpeggia fra le pieghe di questo romanzo. L’autore ogni tanto si fa vivo squarciando la finzione, prende direttamente la parola per mostrare come funziona il suo modo di valutare il mondo: «Io, mio caro lettore, se sei ancora qui con me, mi terrò da parte senza commentare, senza filosofeggiare, lascerò che a parlare siano le immagini, come in un film». E prima, un personaggio secondario, romanziere ex marito di Maria Cristina, aveva detto: «Il presente non è degno di essere raccontato, il passato è già stato raccontato da autori più grandi di lui e il futuro è buono per le mezze pippe». Niccolò Ammaniti ha scritto un romanzo magnifico, in cui il passato animale della nostra specie è ancora attivo, il futuro si annuncia sempre più improbo per noi mezze pippe, e il presente è degno eccome di essere raccontato proprio per la sua indegnità.


La vita intima (Einaudi 2023, pp. 312, euro 19) è l’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti 

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