Secondo il vocabolario in rete della Treccani, «con cultura di massa si indica un tipo di cultura medio, diffuso dai moderni mezzi di comunicazione di massa (stampa, radio, televisione, cinema, eccetera), prodotto con scopi prevalentemente commerciali e di intrattenimento, standardizzato e uniforme, destinato al consumo nel tempo libero, ma concepito anche come mezzo di innalzamento sociale di larghi strati popolari tradizionalmente esclusi dalla fruizione dei beni culturali».

Niente potrebbe descrivere meglio la cultura di massa dell’ossimorico nome del ministero per i Beni e le attività culturali e per il turismo, che testimonia l’attuale appiattimento della cultura al livello dello spettacolo, del divertimento e del tempo libero.

D’altronde, da troppo tempo ormai le opere letterarie, cinematografiche e artistiche vengono pianificate, prodotte, pubblicizzate, vendute e fruite come qualsiasi altra merce, nel generale asservimento di qualunque aspetto della vita quotidiana alle esigenze del mercato, che stanno a quelle della cultura come il diavolo sta all’acquasanta.

Sono dunque vere e proprie rarità i film che si premurano di confezionare una storia mirando non soltanto agli incassi economici, ma anche ai contenuti culturali.

Nel campo dei film a ispirazione scientifica, che di solito rendono un pessimo servizio ai soggetti e ai personaggi che mettono in scena, due di queste rarità sono Interstellar (2014) di Christopher Nolan e L’uomo che vide l’infinito (2015) di Matt Brown, che non a caso si sono avvalsi delle rispettive consulenze di Kim Thorne, premio Nobel per la fisica nel 2017, e Manjul Bhargava, medaglia Fields per la matematica nel 2014.

Talenti pianificati

Un’altra di queste rarità è la recentissima miniserie televisiva Netflix La regina degli scacchi (2020), che a sua volta ha avuto la consulenza di Garry Kasparov, campione mondiale di scacchi dal 1985 al 2000.

In inglese il titolo originale era The Queen’s Gambit, che in italiano si traduce con Il gambetto di donna: un’espressione che indica la mossa di apertura in cui il bianco muove il pedone che sta di fronte alla regina, sfidando il nero ad accettare o rifiutare il provocatorio “sgambetto”. E già nel romanzo di Walter Trevis del 1983, da cui è stata tratta la miniserie, il titolo originale alludeva all’atteggiamento aggressivo della protagonista nei confronti degli avversari maschi.

A scanso di equivoci, il personaggio femminile non è ispirato a qualcuna delle grandi scacchiste della storia: non, in particolare, a Judit Polgár, come qualche ignaro ha sostenuto.

Se non altro, perché Judit e le sue due sorelle sono l’esatto contrario di talenti naturali scopertisi da sé, come la Beth Harmon della miniserie, e costituiscono invece i risultati di un singolare e inquietante esperimento “educativo” pianificato a tavolino dai genitori per dimostrare che geni non si nasce, ma si diventa (se si ha un padre con idee balzane in testa).

Per una sorta di contrappasso, la protagonista è invece ispirata a Bobby Fischer, che proprio nel periodo tra il 1958 e il 1968 in cui è ambientata la storia televisiva aveva dichiarato: «Le donne non giocano bene. Posso concedere loro un cavallo, e continuare a vincere facilmente: anche con la campionessa mondiale. Sono tutte terribili, probabilmente perché non sono così intelligenti. Non c’è mai stata una buona giocatrice, non una che potesse competere con gli uomini, in tutta la storia degli scacchi. Credo che le donne non dovrebbero impicciarsi di cose intellettuali: meglio che stiano a casa, a fare le pulizie».

Qualche decennio dopo le tre sorelle Polgár e varie altre giocatrici hanno smentito nei fatti queste opinioni, senza però mai arrivare a competere per il titolo mondiale assoluto, che Fischer vinse nel 1972 a Reykjavik in un epico incontro con il detentore russo Boris Spassky.

A Fischer non si fa cenno nella miniserie, perché il carattere e il comportamento della protagonista Beth sono in buona parte ispirati a lui, oltre che a Paul Morphy: un altro grande campione statunitense con caratteristiche simili, che a metà Ottocento divenne il primo campione mondiale informale della storia, ritirandosi giovanissimo e cadendo poi preda della paranoia, esattamente come Fischer.

Squilibri geniali

Gli psicanalisti hanno attribuito le turbe psichiche di Morphy e Fischer all’unica causa che essi conoscono: i rapporti con il padre. Simmetricamente, la miniserie attribuisce quelli di Beth Harmon ai rapporti con la madre Alice, suicidatasi causando un incidente d’auto al quale la figlia è sopravvissuta.

Quasi a individuare nella matematica una causa comune dello squilibrio e della genialità di Alice e di Beth, in una delle scene iniziali appare la copertina della tesi di dottorato in algebra superiore della madre all’Università di Cornell, intitolata Rappresentazioni monomiali e presentazioni simmetriche, e un’allusione all’algebra ritornerà nella scena in cui la bambina a scuola mostra di conoscere i binomi.

Per lo spettatore digiuno di scacchi, la miniserie inizia dai rudimenti del gioco, a partire dal sistema di notazione delle caselle della scacchiera che usa le lettere da A a H per le colonne, e i numeri da 1 a 8 per le righe, come nella battaglia navale.

E prosegue mostrando Beth che guarda da bambina il custode del collegio giocare, e impara da sola come si muovono i pezzi: i pedoni in avanti (un passo alla volta), le torri in ortogonale, gli alfieri in diagonale, i cavalli a elle, e la regina e il re in qualunque direzione.

Nel corso delle puntate vengono mostrati vari testi di riferimento, che la protagonista studia e gli spettatori potrebbero leggere. Tra i manuali, alcuni reali e altri inventati, il più citato è il classico Aperture moderne degli scacchi di Richard Griffith e Herbert White, che ha avuto ben quindici edizioni tra il 1911 e il 2008.

Ci sono poi La mia carriera scacchistica di José Capablanca e Le partite 1938–1945 di Alexander Alekhine, che furono campioni del mondo tra il 1921 e il 1946, il primo per sei anni e il secondo per diciassette.

Le sette puntate della miniserie sono esse stesse organizzate come una partita. La prima si intitola Apertura, la quarta Mediogioco e l’ultima Finale, per ovvi motivi. Le altre si riferiscono a specifici aspetti degli scacchi: la seconda gli Scambi (pezzi mangiati a vicenda dai giocatori), la terza i Pedoni doppiati (appaiati su una stessa riga), la quinta la Forchetta (un pezzo che ne attacca due allo stesso tempo), e la sesta la Sospensione.

Quest’ultima si faceva una volta, aggiornando la partita al giorno dopo, per permettere ai giocatori di riflettere sulla partita e riposare, ma oggi è stata abolita, perché le analisi al computer falserebbero lo spirito del gioco umano.

La partita dell’Opera

Ma il più straordinario aspetto della miniserie è che le circa 350 partite mostrate, parzialmente o totalmente, non solo non sono state inventate o, peggio ancora, giocate a caso, ma appartengono alla storia degli scacchi, e insieme costituiscono una specie di florilegio del gioco.

Fra tutte ne spiccano due: la finale che Beth Harmon gioca contro il campione mondiale in carica, il russo Vasily Borgov, e una di quelle che gioca alla veloce a casa del campione locale che lei stessa ha spodestato, lo statunitense Benny Watts.

Quest’ultima, nota come “la partita dell’Opera”, vide di fronte il citato Morphy contro due dilettanti: il conte francese Isouard di Vauvenargues e il duca tedesco Carlo II di Brunswick. La partita prende il nome dal fatto che fu giocata nel 1858 in un palco dell’Opera di Parigi, durante una rappresentazione della Norma, ed è stata commentata innumerevoli volte: in particolare, da Fischer in un video del 1970 reperibile in rete, e da Kasparov nella parte dedicata all’Ottocento del libro I miei grandi predecessori (2003).

L’incontro finale tra Harmon e Borgov è il culmine della serie, e riproduce in parte la partita giocata nel 1993 da Vassily Ivanchuck e Patrick Wolff ai Campionati internazionali di Biel. Uno dei motivi della scelta è che la mossa di apertura è il gambetto di donna, che Beth gioca nell’occasione per la prima volta nella sua vita, come fece Fischer nella sfida con Spassky del 1972.

Un altro è che Ivanchuck, numero due al mondo durante il regno di Kasparov, fu un giocatore eccentrico, imprevedibile, e uso a pensare guardando il soffitto invece della scacchiera: esattamente come la Harmon. Nell’occasione pareggiò con Wolff, perché non vide la mossa vincente che i consulenti della miniserie fanno astutamente giocare a Beth. Persino lo sconfitto Borgov applaude alla fine, in una scena che ricorda l’analogo applauso di Spassky a Fischer nella memorabile sesta partita della loro sfida mondiale.

Moda e scienza

Pur concentrandosi principalmente sull’ossessione paranoica della protagonista nei confronti degli scacchi, la miniserie affronta anche, sia pure di passaggio, il problema del ruolo culturale di questo gioco. E lo fa nella sesta puntata, avviandosi ormai alla conclusione, in due maniere complementari: paragonando gli scacchi alla moda, da un lato, e alla scienza, e dall’altro.

Il primo paragone viene messo direttamente in bocca a una modella, che confessa candidamente a Beth: «Una scacchista non può fare la modella, perché è troppo intelligente, e loro sono troppo vuote. Non hanno niente di interessante dentro, fino a quando qualcun altro non ce lo mette: le modelle sono quello che metti loro addosso. E alcune sono pure terribili a letto, come è chiunque non mangi».

Il secondo paragone è invece una citazione da Un’educazione liberale e dove trovarla (1868) del biologo evoluzionista Thomas Huxley, noto come “il mastino di Darwin”: «La scacchiera è il mondo, i pezzi i fenomeni dell’universo, le regole del gioco le leggi di natura. L’altro giocatore è sconosciuto, e sappiamo solo che è corretto, giusto e paziente. Ma non gli sfugge nessun errore, non perdona nessuna ignoranza, e batte tranquillamente e inesorabilmente chiunque giochi male».

In una parola, gli scacchi assomigliano molto alla scienza, e per niente alla moda: cioè, sono Cultura con la maiuscola, e non minuscola cultura di massa, persino quando si vedono su Netflix.

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