Un ritorno nel nome del padre, Daniel-Day Lewis toglie il fiato

Più o meno a pagina 23 di Fiorirà l’aspidistra (dipende dalle edizioni Mondadori) incontri il nome di Cecil Day-Lewis. Keep the Aspidistra Flying è un romanzo di George Orwell del 1936. Così incisivo che tende a cronicizzare l’auto-disistima del lettore adolescente. Quel nome resta impresso perché, ignoto da noi, sta nello stesso scaffale di T. S. Eliot, W. H. Auden, Ezra Pound. Tanto per dire il livello. Irlandese di nascita, poet laureate dalla regina, “quel” Cecil Day-Lewis è il babbo di Daniel Day-Lewis. Ci sono domande che restano in gola da sempre, se guarda caso c’è un filo nascosto tra il tuo formativo livre de chevet e il tuo attore di culto. Non sembrava mai il momento buono. Anemone, prima regia di Ronan, il Day-Lewis junior, scritto a quattro mani col padre e co-prodotto dalla Plan B di Brad Pitt, ha fatto il miracolo. Perché l’essenza del film – e della sua genesi – risiede nel cortocircuito father-and-son, e se hai davanti l’attore tri-Oscar, di questo nesso, finalmente, ha senso parlare. I cinque secondi di Virzì, l’accudimento è la chiave Evvai, ci ha ripensato Anemone incidentalmente (scherzo, neh!) è anche il film che restituisce Daniel Day-Lewis agli schermi dopo l’addio al cinema di otto anni fa, dopo il sublime Il filo nascosto del 2017. Molti hanno pensato, allora, che immaginare il cinema senza di lui era un po’ come abolire il secondo emendamento per gli elettori di Donald Trump: inconcepibile. «È stato un errore parlarne, avrei dovuto stare zitto – ha detto l’attore, ospite top di Alice nella Città, festival parallelo alla Festa di Roma focalizzato sul coming of age – perché anche prima sentivo parte necessaria di questo ciclo naturale quella di potermi permettere di allontanarmi, per ricaricarmi e rinutrirmi. È una cosa che ho sempre sentito molto forte (si era preso anche pause per fare pratica da calzolaio a Firenze e poi da falegname ndr). Mi sentivo in difficoltà, non per il mio lavoro, che è sempre stato una fonte di nutrimento, ma per l’aspetto pubblico. Può sembrare strano che una persona di questo ambiente non sia esibizionista e non voglia essere sempre in vetrina. Questo mestiere di solito si fa per farsi notare. Ma il problema è che non c’è un interruttore con la vita privata. Quando ho deciso di lasciare il cinema ho provato subito tristezza. Pensavo che Ronan prima o poi sarebbe passato al cinema e non avrei potuto lavorare o recitare con lui. A quel punto abbiamo pensato che potevamo “cucinare” qualcosa insieme, e lo abbiamo fatto». C’è da rendere grazie per il suo ripensamento all’amore paterno e a un ventisettenne che dalla pittura e dalla visual art ha deciso di passare alla regia. Il film va in sala il 6 novembre con Universal Pictures. Daniel Day-Lewis e Sean Bean in una scena di Anemone Courtesy of Focus Features / © 2025 FOCUS FEATURES LLC.

[Missing Credit] Due monologhi memorabili A 67 anni, col suo bel cranio argentato, “papà” è da togliere il fiato. È ancora e sempre magnetico. Ha le braccia coperte di tatuaggi. Si emoziona, parlando, e trasmette fisicamente emozione. Il suo Ray Stocker di Anemone è un misterioso eremita in auto-esilio ventennale nella wilderness montuosa dello Yorkshire, e la natura – gli alberi, il vento, il cielo, una grandinata apocalittica – parla molto più degli esseri umani. Può depistare lo spettatore il disegno infantile che scorre sui titoli di testa: uomini armati, un edificio in fiamme e vittime dilaniate. Daniel Day-Lewis ha ripreso la cittadinanza irlandese del padre, e ha interpretato The Boxer: che sia un film sull’Ira? L’Ira c’entra, ma si capirà solo alla fine. Sean Bean (Jem Stocker) prega in ginocchio Dio di «dargli la forza di affrontare il compito». È un devoto cattolico, sulla schiena ha tatuato Only God Can Judge Me. Siamo negli anni Ottanta, e la famiglia che forma con Nessa (Samantha Morton), è alle prese con la rabbia di un figlio che sta sfociando in violenza. Jem non vede il fratello da vent’anni, ma lo raggiunge nella sua baracca sperduta per portargli una lettera. C’è ben poco da dire sul gelido, taciturno, rancoroso Ray, che si esprime solo a parchi gesti e a grugniti: bisogna vedere l’attore all’opera. Il ricordo de Il Petroliere può dare solo lontanamente l’idea. E a premiare lo spettatore ci sono due monologhi spettacolari nella prima e nell’ultima parte del film. Nel primo Ray-Daniel illustra al fratello (con dovizia di crudi dettagli scatologici) la vendetta consumata da adulto sul prete cattolico – pilastro della comunità – che l’aveva violentato bambino. Non è una vendetta cruenta, solo puzzolente. Hen è un film su una gallina, sembra un po’ Die Hard e un po’ Il capitale È una denuncia che inchioda. Nell’ultimo mette a fuoco il trauma che gli ha devastato la vita, ha lasciato un figlio senza padre e una ragazza incinta, Nessa, senza compagno. Da militare britannico di servizio in una unità di ricognizione nell’Irlanda del Nord, vent’anni prima Ray è stato marchiato da un fatto di sangue che forse era ispirato dalla pietà ma è stato classificato come “crimine di guerra”. «Crimine di guerra? La guerra era il crimine. Noi cercavamo i soliti fantasmi». Ecco lo snodo drammaturgico e il messaggio di Anemone, film imperfetto, assai maltrattato dalla critica anglofona, ma con una visceralità e un’estetica interessanti. L’altra chiave è la paternità. Aderirà l’eremita alla richiesta di aiuto per quel figlio mai conosciuto, tormentato dall’idea di un padre biologico «assassino e vigliacco»? Un horror ad altezza di cane: “Good Boy” è un film intrigante A proposito di Cecil Day-Lewis So già cosa pensa D.D.-L. dei troubles nordirlandesi. È equanime, come su Gaza. Per lui «sono due popoli catastroficamente rappresentati dai loro governi». Così gli ho parlato del libro di Orwell e del cervello anarchico di una tredicenne che collega emozioni diverse rendendole inseparabili. Chissà se pesa davvero, quel nonno, su un figlio e un nipote con l’arte nel sangue. «Credo che mio padre per me sia sempre rimasto un mistero. Quando è morto avevo quattordici anni, e l’ho sempre visto assorbito dalla sua scrittura. La casa era organizzata intorno ai suoi bisogni, alle sue esigenze. Quando lavorava era particolarmente silenziosa. Poi magari alternava una settimana di lavoro a una settimana in cui andava dall’editore, e in casa eravamo più liberi. Era una persona gentile, anche se non ricordo una vera e propria chiacchierata con lui. Tranne quando volevo viaggiare: era anche un pretesto per poterne discutere. La sua influenza creativa è legata soprattutto al fatto che entrambi i miei genitori erano come custodi, “protettori”, della lingua inglese. Sono cresciuto in una casa piena di libri. Volevo scappare da lì perché trovavo la strada molto più interessante. Ma l’ambiente in cui sono cresciuto ha avuto un’influenza molto profonda su di me». (Mi ha anche abbracciata. Credo per compassione. Ma è stato bello ndr). Ronan è uno dei tre figli di Daniel e di Rebecca Miller, figlia di Arthur. Una famigliola qualsiasi. «Mio padre mi leggeva qualche poesia di mio nonno, ma chi ha pesato davvero su di me sono stati i miei genitori. Mi hanno dato la possibilità di considerare quello che volevo fare come un lavoro che poteva essere serio. Ho sempre disegnato fin da bambino, e mi hanno sempre incoraggiato. Anche mia madre dipinge. E anche il mio nonno materno aveva uno studio in cui lavorava, un posto per me familiare, anche se è morto quando avevo sei anni. Mi ha sempre trasmesso una grande energia, che credo di aver assorbito». Magari è una storia bischera. La storia di un viaggio sentimentale. Ha come sempre ragione Vasco: ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, e ognuno in fondo perso dentro i fatti (che live diventano «cazzi») suoi. “La vita va così”, la Fiaba troppo fiabesca di Riccardo Milani apre la Festa del Cinema