La traduttrice Angelina Ščekin-Krotova ha raccontato che nel 1956, in occasione del sessantacinquesimo compleanno dello scrittore Il’ja Erenburg, autore del romanzo Il disgelo, (romanzo che ha dato il nome al periodo storico in cui era, allora, nel 1956, l’Unione sovietica), c’era stata una festa alla quale lei era andata con il marito, il pittore Robert Fal’k.

«C’era un mucchio di gente» ha detto, «per gli uomini non c’erano abbastanza sedie, si eran sedute solo le donne e gli anziani; non si sapeva dove mettere i colbacchi e le pellicce, c’era un fitto inverosimile, come in metropolitana all’ora di punta, ha presente?

Con difficoltà siamo riusciti a farci strada fino al vino e al cibo. Ricordo Tyšler (pittore anche lui) che aveva rubato tre bottiglie e se la godeva, seduto in un angolo (ride).

D’un tratto c’è stato una specie di fruscio e, nello studio, (eravamo nello studio, io e Fal’k) è entrata Anna Achmatova, vestita di nero, coi suoi capelli argentati.

D’un tratto la stanza è diventata grandissima, quella stanzetta piena murata. Tutti si sono alzati in piedi e l’hanno salutata in silenzio; lei, come una regina, sa?, si è inchinata e è uscita dalla stanza.»

Come i vecchi

Mi piace come parlano i vecchi.
Anzi, mi piace come parlavano i vecchi quando ero giovane io.
Mi piace come parlava mia nonna Carmela.
Mia nonna Carmela, quando parlava in pubblico, cioè quando, in mezzo a della gente, le veniva da dire qualcosa, lei parlava con un tono di voce più alto, di quello, per esempio, con cui parlo io.

E quel tono lì, mi sembra, voleva dir delle cose.
Voleva dire che mia nonna Carmela era figlia di mezzadri, era la sedicesima di diciassette fratelli e sorelle.
Che aveva fatto la terza elementare e che poi era andata a lavorare, a servire, a Parma, a casa di un generale, quando aveva undici anni.

Mi diceva «Paolo, a casa nostra c’era una miseria che quando siam diventati poveri abbiamo fatto una festa».
Voleva dire che lei, da quella miseria lì, ne era venuta fuori.
Voleva dire che lei, con la sua vita, con le sue mani, con il suo lavoro, aveva conquistato il diritto di parlare come tutti gli altri.

Voleva dire, quel tono della voce, «Ci sono anch’io, ve’!? E ho diritto di esserci anch’io, ve’!? Come te».
La voce di mia nonna è la voce più potente che io abbia mai sentito in vita mia.
In letteratura, per me, la voce di mia nonna Carmela è la voce di Anna Achmatova.
Non c’entra niente, Anna Achmatova, con mia nonna. Però è uguale.

Una stanza blu

Se dovessi dire cosa ho capito nei miei studi universitari, direi che, principalmente, ho capito cosa sono significante e significato. Che sono, mi sembra di aver capito, il suono e il senso. Che si influenzano l’uno con l’altro. Che non esistono sinonimi, mi sembra di aver capito, e che una cosa detta in un altro modo significa un’altra cosa.

E che però il significante, anche da solo, senza significato, può produrre degli effetti duraturi.

Era il 1989, eravamo in un’aula al primo piano del dipartimento di Lingue e letterature straniere dell’Università di Parma, in viale San Michele, la professoressa Siclari ha letto, in russo, una poesia di Anna Achmatova e io, avevo cominciato da poco a studiare russo, non ci ho capito niente, ma l’effetto di quella lettura, di quei suoni, di quel significante, privo, per me, di significato, era stato il fatto che la stanza dove eravamo si era dipinta di blu, era diventato tutto leggero ed era stato chiarissimo, non avevo più dubbi: avrei studiato il russo per il resto della mia vita.

Per l’ultima volta

L’ultimo libro che ho pubblicato è un libro su Dostoevskij, un romanzo il cui scheletro narrativo è la biografia di Fëdor Michajlovič Dostoevskij e che si intitola Sanguina ancora e si sottotitola L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij.

Nelle presentazioni di quel libro ho detto che non sapevo se il libro fosse riuscito o meno, ma il sottotitolo, secondo me, era vero: la vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij valeva la pena di essere raccontata indipendentemente dal fatto che Dostoevskij fosse uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi.

Poi lui è anche uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, e questo ha delle conseguenze, le sue opere ci dicono delle cose memorabili su di lui, sul mondo e su di noi, e se, invece che lo scrittore, avesse fatto l’ingegnere navale, noi sapremmo meno di lui, del mondo, e di noi.

Questo libro si intitola Vi avverto che vivo per l’ultima volta, si sottotitola Noi e Anna Achmatova e il discorso, per l’Achmatova, mi sembra sia simile (la differenza nei sottotitoli dipende da una cosa che è successa qualche mese dopo che ho cominciato a scrivere il libro, e ne riparliamo).

Anna Achmatova è, anche lei, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi e credo che anche la sua vita sia stata incredibile e che meriterebbe di essere raccontata indipendente- mente dal fatto che lei sia uno dei più grandi poeti di tutti i tempi.

Poi lei è anche uno dei più grandi poeti di tutti i tempi e le sue opere ci dicono delle cose memorabili, di lei, del mondo, e di noi, e se, invece che il poeta, avesse fatto l’ingegnere navale (il padre di Anna Achmatova era ingegnere navale, come Dostoevskij), ne sapremmo meno, di lei, del mondo, e di noi.

Però, con le opere di Anna Achmatova, c’è una difficoltà che con quelle di Dostoevskij non c’è.

Anche con l’impermeabile

Ho visto un film di Jim Jarmusch che si intitola Paterson, e che parla di un autista di autobus che si chiama Paterson e vive in una città che si chiama Paterson ed è un appassionato di poesia, e scrive poesie, e legge poesie, e alla fine del film incontra un giapponese appassionato di poesia e gli chiede se lui, le poesie dei poeti americani, le legge in inglese o in traduzione, e il giapponese dice «Leggere le poesie in traduzione è come fare la doccia con l’impermeabile».

Questa è la difficoltà: i lettori di questo romanzo faranno un po’ di docce con l’impermeabile.

Ma forse non cambia moltissimo: a me sembra che nelle poesie di Anna Achmatova piova così forte che ci si bagna anche con l’impermeabile.

«Di chi sei?»

Quando ho cominciato a scrivere questo libro una mia amica mi ha chiesto «Di chi era moglie, l’Achmatova?».

Che è una domanda che mi ricorda quando ero piccolo, a Basilicanova, il paese di mio nonno, che quando un abitante di Basilicanova mi trovava per strada veniva da me e mi chiedeva «Di chi sei, te?».

Che era una domanda che mi lasciava interdetto perché mi sembrava di non essere di nessuno.

E l’Achmatova, molto di più, mi sembra che non fosse moglie di nessuno.

Cioè è stata, moglie di qualcuno, ma non era lei, a essere la moglie di quelli lì: erano loro, che erano i mariti dell’Achmatova, perché lei è stata qualcosa di raro.

A Parma, per dire a una donna che è molto bella le si dice «Sei fatta a mano», e l’Achmatova era così, sia lei che la sua vita: fatte a mano.

Senza orpelli

Pavel Fokin ha dedicato a Anna Achmatova una biografia fatta tutta di memorie di persone che l’hanno conosciuta (si intitola Achmatova bez gljanca, Achmatova senza orpelli).

Nell’introduzione scrive: «Lei, privato cittadino, senza tessera di partito, poeta lirico, donna sola, incapace di accendere un fornello a gas senza l’aiuto di qualcuno, è stata per tre volte giudicata e condannata dal Comitato Centrale del partito al potere.

Tre risoluzioni del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (dei bolscevichi).

Si può pensare che i bolscevichi non avessero altre preoccupazioni: cos’erano l’elettrificazione, l’alfabetizzazione, l’opposizione interna al partito, l’industrializzazione, la collettivizzazione, la guerra contro la Germania fascista, la restaurazione del paese.

C’era l’Achmatova; lei sì, che era peggio dell’Intesa e di Hitler, di Trockij e di Bucharin. Senza alcuno sforzo da parte sua, i bolscevichi le riconobbero lo status di avversaria alla pari, le diedero (tre volte!) un mandato di potere, una lettera d’encomio, o come dicevano gli antenati tartari della poetessa, uno jalryk, un editto per regnare. Una cosa stupefacente».

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