Una domenica pomeriggio di fine agosto o inizio settembre 1960, sono seduta, sola, su una panchina dei giardini accanto alla stazione di Woodside Park. C’è il sole, bambini che giocano. Ho portato il necessario per scrivere. Comincio un romanzo. Scrivo una paginetta o due, magari anche meno. Forse soltanto questa scena: una ragazza sdraiata accanto a un uomo, si alza dal letto e se ne va via, in strada.

Di questo inizio scomparso mi rimane il ricordo nitido della prima frase: «In riva al mare danzavano lentamente dei cavalli». In televisione, dai Portner, avevo visto una scena che mi aveva molto turbata. Si vedevano al ralenti due cavalli ammaestrati che si impennavano ed eseguivano evoluzioni su una spiaggia. Con quell’immagine volevo suggerire la sensazione di dilatazione temporale e di invischiamento dell’atto sessuale.

Se faccio riferimento al brevissimo romanzo che poi ho effettivamente scritto due anni dopo riprendendo quell’incipit, è per raccontare non tanto la realtà della mia storia con H., bensì un modo di non essere al mondo – di non sapersi comportare nel mondo.

Il porto della scrittura

Qualche cosa di immenso, sfocato, che forse spiega perché all’epoca non sono più andata avanti nel romanzo, rimandandone la realizzazione alla mia futura vita di studentessa di lettere (o di filosofia, esitavo a causa di Beauvoir). R. non ha mai saputo nulla della mia intenzione di scrivere. Ero convinta che avrebbe cercato di dimostrarmi quanto fosse assurda quella mia ambizione.

Mi chiedo se questa immagine, quella ai giardini di Woodside Park, la ragazza sulla panchina, non mi abbia attratta come un magnete sin da quando ho cominciato a scrivere questo libro, come se tutto ciò che è accaduto dopo la notte alla colonia sfociasse, un cedimento dopo l’altro, in quel gesto inaugurale.

Questo sarebbe quindi il racconto di una perigliosa traversata fino al porto della scrittura. E, in fin dei conti, la dimostrazione esemplare che quello che conta non è ciò che succede, è ciò che si fa di quel che succede. Tutto ciò attiene al campo dei convincimenti rassicuranti, destinati a incistarsi via via più in profondità con l’avanzare degli anni ma la cui verità, in fondo, è impossibile da stabilire.

Nel gennaio 1989 ho passato un weekend a Londra per un convegno al Barbican Centre in compagnia di numerosi altri scrittori. La domenica mattina, priva di impegni, ho preso la Northern line fino a East Finchley, poi sono salita sull’autobus e ho chiesto al conducente quale fosse la fermata di Granville Road, la più vicina alla casa dei Portner. Prima di scendere ho intravisto la Swimming Pool.

Ho imboccato Kenver Avenue. La casa dei Portner mi è sembrata piuttosto piccola e ordinaria. A Tally Ho Corner era rimasto solo il Woolworths. Il tobacconist dei Rabbit non c’era più, così come il cinema in cui avevo avuto voglia di entrare attirata dalla locandina di Suddenly, Last Summer con Elizabeth Taylor (film che avrei visto dieci anni dopo) e dove si potevano comprare grossi sacchetti di popcorn senza bisogno di pagare il biglietto. Non ricordo di aver rivisto i giardini.

Ho ripreso la metro a Woodside Park. Nel tragitto del ritorno ho scritto sul diario: «Gli altri partecipanti al convegno si sono tutti precipitati nei musei, io a North Finchley, nella mia vita passata. Non sono culturale, per me conta solo una cosa, cogliere la vita, il tempo, comprendere e godere».

È questa la più grande verità di questo racconto?


da Memorie di una ragazza, traduzione di Lorenzo Flabbi, L’orma, 2017

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