Li ho contati. Saltabeccando tra le piattaforme ci sono almeno 15 titoli su gente ai fornelli che resistono eroicamente all’usura dello streaming. Il cibo tira più del romance, e spesso ci va a braccetto. L’armamentario lessicale è al collasso, perché più di tanto non puoi giocare sui sinonimi di cibo, cucina e chef. Film, serie, reality competitivi: troppa concorrenza interna. The Bear si è ritagliato un posto a parte come prodotto seriale, grazie a Jeremy White, che a breve, incarnando sullo schermo The Boss Bruce Springsteen, sbriciolerà la memoria del piatto Bob Dylan di Timothée Chalamet.

Tra passato prossimo e presente, la parola “cuoca” è ormai fuori corso, troppo sfruttata (La cuoca di Castamar, La cuoca del Presidente). Il menù è stato sequestrato dall’horror (The Menu). I titolisti italiani si sono sbizzarriti tra sapori e dissapori, ricette perfette, abbinamenti allettanti tra amore, cucina e curry o, ancora meglio, sapore e successo. Con colpi d’ala di variazioni tipo Délicieux, l’amore è servito. In tanta ressa, i più saggi hanno rispettato i titoli originali (Soul Kitchen, Midnight Diner-Tokyo Stories), o i nomi propri degli chef (Julie & Julia, Vatel e ovviamente Ratatouille, il topo stellato Disney).

Sì, li ho visti tutti, premiati e no, anche se evito come la peste gli show con le vere star dei fornelli in azione, italiani o whatever, perfino il leggendario e rimpianto Anthony Bourdain alle prese coi noodles di Barack Obama.

La Cocina, vedi testo teatrale di A.Wesker

L’inevitabile senso di sazietà davanti a un’offerta calorica che fa impennare, metaforicamente, i livelli di colesterolo, può rendere magari poco appetibile un titolo come Aragoste a Manhattan (frivolo adattamento italiano dell’originale La Cocina) di Alonso Ruizpalacios, con Rooney Mara e Raùl Briones.

Era in concorso all’ultima Berlinale, e il regista messicano già premiato a Berlino per l’opera prima e per la sceneggiatura di Museo-Folle rapina a Città del Messico ha un pedigree di tutto rispetto. Ruizpalacios fa (tragi)commedie, però sferzanti, con l’occhio puntato sui rapporti di classe. La Fondazione Prada gli ha di recente dedicato un focus. E questo non è un food porn, come ormai viene catalogata la produzione in metastasi dedicata, è un anti-food porn.

Dietro il film c’è The Kitchen, celebre pièce teatrale di Arnold Wesker scritta nel 1957 per 32 personaggi in scena, un caos frenetico che coagula rabbia, frustrazioni, battibecchi, sfruttamento e ipocrisie. Era un testo ispirato all’esperienza diretta dell’autore come inserviente e l’azione si svolge nella grande cucina del ristorante Tivoli, dove – scriveva Wesker – «la qualità del cibo non ha tanta importanza quanta ne ha la velocità con cui viene servito».

«Il personale di cucina ha un odio istintivo per il personale di sala, ma l’odio per il cliente li accomuna tutti. Il nemico personale è il cliente». Wesker era socialista, ma la messa a fuoco di Ruizpalacios, che trasferisce l’azione nella New York dei tempi nostri, in una “trappola per turisti” di Times Square in franchising, lavoro duro e cibo pessimo, tremila coperti a pasto, è più apertamente sociale. Indaga sul sistema di caste che domina la catena produttiva di questi sacrari profani, esasperato dall’immigrazione e dalla doppia subalternità che ne deriva. Indaga sulle gerarchie che convertono il toil, la fatica, in perdita di dignità.

Da studente, lo stesso regista ha lavorato come lavapiatti e cameriere al Rainforest Café, nel centro di Londra. Aragoste a Manhattan, che The Hollywood Reporter ha definito «un The Bear sotto coca» è in sala dal 5 giugno con Teodora.

In bianco e nero e con l’irriverenza sfacciata del cinema indie Made in Usa, tra lampi di free jazz assordanti e corali solenni, il regista segue anche un filo rosso letterario, l’antitesi tra fatica e sogni, anzi vita tout court, teorizzata da Henry David Thoreau.

L’ultima giovanissima messicana appena sbarcata a New York senza documenti, Estela (Anna Dìaz), senza nemmeno parlare inglese, per una fortunata svista di orario entra nello staff di “The Grill”. È un posto che all’ora di pranzo annienta pensiero e respiro. In quella giornata, molte crisi convergono. Dalla cassa sono scomparsi 823 dollari, e il sospetto non risparmia nessuno. In parallelo sappiamo che quella cifra più o meno è costata alla cameriera Julia (Rooney Mara) per interrompere la gravidanza all’insaputa del padre Pedro (Raùl Briones), uno dei due cuochi in perenne conflitto. Ho pensato che il film di apertura di Cannes 2025, Partir un jour, che sfruttava una situazione analoga, non era poi così originale.

«È facile essere nemici degli americani»

Sono amori e amicizie precarie, clandestine, quelle che si consumano tra la cella frigorifera e l’alluvione di cherry coke che trasforma i locali di lavoro in un pantano appiccicoso, senza che nessuno batta ciglio perché the service must go on. E non c’è speranza di sfuggire al proprio gradino assegnato. Il progresso è una cosa strana. Prima che diventasse uno status symbol, i poveri usavano le aragoste come esca.

L’American dream, il sogno che ha calamitato tutte le etnie e le provenienze geografiche dello staff, viene dissezionato nell’ora di pausa e di sigaretta che li raduna nel vicolo, tra i bidoni dell’immondizia, «come un’assemblea dell’Onu».

Una casetta «di marzapane» come quella di Hansel e Gretel, i soldi, una ragazza che sta con te perché sei “cittadino americano”. Oppure il raggio verde, di pura origine aliena, che ti fa sparire per sempre. Sognano questo, perché l’illusione ha tanti nomi. È una società divisa costretta a condividere lo stesso spazio vitale, separata da frontiere fisiche, spirituali e sociali: sala/cucina, management/ personale, americani/stranieri. Una torre di Babele con poteri e (non)diritti ben definiti, che vive sul filo della tensione.

E gli interrogatori dei proprietari sulla cifra sottratta sono crudeli, perché promettono in cambio una “messa in regola” amministrativa che, per esperienza comune, non arriverà mai. È un vecchio trucco per tenere alto il morale, spiegano. «È facile essere nemici degli americani, ma quanto è difficile essergli amici», è il commento. Non c’è spazio per la solidarietà, l’umana pietà. A un homeless affamato Pedro allunga un avanzo di aragosta. La zuppa dei poveri no, «perché con quella ti avveleni».

Gli costa una scenata. Pagherà l’elemosina di tasca sua. L’esplosione di rabbia arriva senza preavviso, anche se l’ammanco è stato un falso allarme, non ci sono colpevoli. È «this incessant business» contro cui militava, ben poco ascoltato, Thoreau.

Raùl Briones era già stato protagonista di A cop movie, docu-fiction di Ruizpalacios del 2021 che esplorava la corruzione della polizia messicana. Rooney Mara da nove anni è la compagna di Joaquin Phoenix. Non so perché, ma le accoppiate tra i bravi – e intelligenti – mi consolano sempre.

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