Addio a uno degli artisti simbolo del Novecento: la sua grandezza non sta solo nelle opere monumentali, ma nel modo in cui ha saputo intrecciare la sua arte con la vita culturale del suo tempo. La capacità di tessere legami, di abitare i luoghi e le idee, è ciò che lo ha reso un classico contemporaneo, con un lessico personale, in equilibrio tra astrazione, mitologia e architettura
La sera del 22 giugno 2025, alla vigilia del suo novantanovesimo compleanno, si è spento a Milano Arnaldo Pomodoro, un viaggiatore antico con una sola bussola: la materia. Con lui se ne va uno dei più grandi narratori del Secondo Novecento Italiano, un artista che ha avuto l’ambizione di costruire un mondo, non solo delle opere. È un silenzio che pesa quanto il bronzo, un riflesso dorato che continua a ferirsi di tagli.
Non è stato un artista chiuso in studio, ma un tessitore di incontri. Parlava con architetti, scenografi, filosofi, con i ragazzi che bussavano per capire come si ascolta il metallo. «L’arte non serve a decorare – ripeteva – serve a cambiare la temperatura del mondo».
New York
L’America è stato il suo grande amore e il primo viaggio importante. È stata New York a fargli capire che l’arte poteva entrare nel paesaggio urbano, diventare corpo vivo tra le persone. È da lì che le sue sculture hanno cominciato a uscire per le strade, installandosi dentro le crepe delle città, diventando luoghi di pensiero condiviso.
È stato il momento in cui Pomodoro è uscito davvero dall’Italia e diventato artista del mondo: non ha mai rinnegato le sue radici – la Romagna, l’influenza etrusca, la cultura artigianale – ma aveva capito che il linguaggio della forma doveva essere globale, parlante in tutte le lingue. Da allora, ogni sua opera è anche una mappa: di un tempo, di un pensiero, e di quel primo sguardo gettato su Manhattan, con gli occhi pieni di ferro, luce e futuro.
Non ha aderito a nessuna corrente; ha aderito a un’urgenza: trasformare la geometria in racconto, la forma in passaggio. Antico come le civiltà che evocava e attuale come il clangore delle città che ancora lo ospitano. La sua grandezza, infatti, non sta solo nelle opere monumentali, ma nel modo in cui ha saputo intrecciare la sua arte con la vita culturale del suo tempo. Questa capacità di tessere legami, di abitare i luoghi e le idee, è ciò che lo rende oggi un classico contemporaneo, con un lessico personale, in equilibrio tra astrazione, mitologia e architettura. Lucio Fontana, vedendolo esporre per la prima volta, gli disse: «Tu non fai scultura, fai architettura magica».
Di quelle Sfere, lucide per rassicurare lo sguardo, squarciate per tradirlo, ha fatto il suo manifesto. A prima vista perfette, quasi cosmiche, poi improvvisamente ferite, interrotte. Ma le fessure non sono rotture, bensì passaggi; mostrano la tensione tra ordine esterno e complessità interna. E la vita è lì, nel punto esatto in cui la forma si apre.
Milano
Milano è la città che Pomodoro ha scelto e dove ha costruito tutta la sua visione. Ma non quella delle vetrine e dei grattacieli. Il suo Labirinto si trova sotto il livello della città, come un cuore segreto, che batte a parte. Un corridoio di rilievi mesopotamici, alfabeti perduti, circuiti futuri. Un’opera immersiva, viva: non si visita, si attraversa, e quando si riemerge si è muti e pieni di domande. L’arte come esercizio di smarrimento per orientarsi in una complessità più vasta. Un viaggio non da guardare, ma da compiere, dove il bronzo è scrittura, la materia è pensiero, la scultura è tempo stratificato. È forse la sua opera più radicale: non monumentale, ma esistenziale.
Con Arnaldo Pomodoro non perdiamo solo uno scultore: perdiamo un architetto del pensiero, un uomo che ha saputo trasformare la geometria in racconto, la scultura in ferita aperta, la forma in passaggio. Di fronte a una sua Sfera, o dentro il suo Labirinto, ci si sente parte di qualcosa di più grande: un dialogo antico e modernissimo, tra la memoria e il futuro.
Da anni, la Fondazione cerca di fare luce sull’Archivio del Maestro, sui suoi continui rimandi e intrecci con gli artisti e gli attori della scena culturale italiana e internazionale, ma non solo: come le opere di Arnaldo, è un luogo vivo, di creazione, creatività e confronto continuo con la scultura contemporanea.
Quando se ne va un Maestro, siamo tutti più poveri. Non solo perché perdiamo una voce autorevole, ma perché si spegne una coscienza che sapeva vedere oltre la superficie, una mente che sapeva incidere il tempo come fosse materia.
Arnaldo Pomodoro non c’è più, ma restano le sue superfici incise, i suoi segni, e tocca a noi ascoltarli, non chiudere quelle forme, non dimenticare quel gesto. Le sue Sfere continueranno a ruotare nel tempo, come satelliti di un pensiero che non ha mai smesso di chiedersi cosa c’è oltre la superficie. Tocca a noi, ogni giorno, attraversare.
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