È morto a 99 anni in quella Milano dove aveva scelto di vivere fin dal 1954. In un dialogo con Gillo Dorfles e Aldo Colonetti avrebbe scritto: «La scultura per me è un’attività "politica”, nel significato di “polis”, ovvero la scultura deve essere caratterizzata dalla partecipazione alla vita sociale e civile: deve vivere nello spazio»
Il teatro, lo spazio pubblico, il paesaggio, l’architettura, e così la grafica e l’oreficeria, nel passaggio naturale e continuo dalla dimensione monumentale a quella ridotta, dallo slancio verticale al radicamento al suolo, dalla passione volumetrica alla scansione minuta del foglio. E tutto era, per Arnaldo Pomodoro, scultura. L’attitudine a riplasmare il reale si faceva astrazione segnica, simbolica, materica, fondamento di una mitologia delle forme nuove, dei nuovi alfabeti, là dove il senso del contemplare o dell’abitare un’opera coincidevano, come esperienza totale del mondo.
Pomodoro è morto a 99 anni in quella Milano dove aveva scelto di vivere fin dal 1954. Anni di ferite, di macerie e di fatica, per un’Italia che si rialzava dall’incubo della guerra, mentre sul fronte dell’arte si scontravano e si incrociavano le istanze del Realismo e le varie correnti dell’Astrattismo, con la grande stagione dell’Informale. Nato nel 1926 nel Montefeltro, cresce e si forma a Pesaro, studiando da geometra ed entrando nel Genio Civile. A Milano incontra Lucio Fontana, che lo introduce nel milieu artistico locale: una figura quasi paterna, di cui ammira e assorbe lo spirito avanguardista, l’audacia creativa, l’altezza del pensiero. Poi il primo viaggio a New York e la visita al MoMA, esperienza di conoscenza e di stupore, fino alla folgorazione che lo coglie nella sala dedicata a Brancusi: il candore delle sculture, la tattilità delle superfici lisce, le geometrie morbide e oblunghe, intrise di purezza arcaizzante, da un lato lo seducono, dall’altro stimolano il desiderio di contraddirle, di minarne la perfezione. È il germe di un’immagine guida che lo accompagnerà da lì in avanti.
Il lavoro sulle geometrie, sui solidi platonici, sull’astrazione come formalizzazione essenziale, si ibriderà con il lavorio della materia, con l’ossessione del segno, con l’impulso a tarlare, scavare, inscrivere, incidere, dischiudere, corrodere, spaccare. Sedimentati nel suo immaginario, hanno un ruolo l’amore per la storia, la curiosità per le scritture cuneiformi dei Sumeri, i geroglifici egizi e le incisioni rupestri, e ancora gli studi su Paul Klee, l’ammirazione per Giacometti.
Gli anni Sessanta
Nei primi anni ’60 passa dagli altorilievi al tuttotondo, prediligendo il lucore e la consistenza del bronzo, che avrebbe poi spinto fino alle grandi dimensioni, proiettandosi nello spazio pubblico. Fondamentale l’opera La Colonna del viaggiatore (1965/66), con cui si guadagna uno dei Premi internazionali di scultura del Carnegie Institute di Pittsburgh, insieme a maestri del ‘900 come Albers, Bacon, Miró. Ad acquistarla è il magnate statunitense Nelson Rockefeller, mentre una seconda edizione va alla National Gallery of Victoria di Melbourne. Il tema della colonna e dell’obelisco sarebbe rimasto un topos della sua ricerca: elementi in cui la memoria classica e la solidità geometrica, tra spinta verso l’alto e gravità monolitica, aprivano a un’esplorazione spaziale infinita, ulteriormente problematizzata dal cesello della scrittura che scandiva i volumi dall’interno.
Nel ’67 scolpisce la Sfera grande per l’Expo di Montreal, poi collocata all’esterno della Farnesina e divenuta eloquente landmark urbano. La sfera è un’altra costante, coagulo di spazio-tempo che incarna l’esattezza matematica e il movimento ciclico ininterrotto. Ancora una volta lo squarcio e l’intaglio spezzano la continuità in favore di una frattura generativa e di un eterno ritorno del differente.
Da allora in avanti non si contano i suoi interventi in spazi pubblici, dall’Europa all’America, dall’Australia al Giappone. Ideati in armonia con i contesti, nel rispetto delle vedute, delle linee d’orizzonte, delle architetture, i suoi corpi scultorei sono presenze radicali ma non disturbanti, figlie di una relazione consapevole tra natura e artificio. Non solo oggetti da contemplare, ma anche strutture estese, abitabili e attraversabili, come universi paralleli scavati nel reale; varcarne la soglia è occasione per sperimentare, attraverso la materia, nuovi territori mentali.
In un dialogo con Gillo Dorfles e Aldo Colonetti avrebbe scritto: «La scultura per me è un’attività "politica”, nel significato di “polis”, ovvero la scultura deve essere caratterizzata dalla partecipazione alla vita sociale e civile: deve vivere nello spazio, deve interagire con il contesto preesistente, senza alcuna presunzione di essere migliore rispetto a ciò che la circonda».
Lui e il teatro
E nel solco di quest’idea di una scultura che si fa spazio e architettura, scrittura misteriosa e simbolo antropologico, il teatro è un altro linguaggio prediletto. Fin dagli anni ’50 disegna scenografie, costumi e oggetti di scena per opere sperimentali, al fianco di registi, musicisti, compagnie internazionali. La Sicilia fu luogo straordinario di lavoro e ispirazione, grazie al rapporto con Ludovico Corrao, negli anni della ricostruzione di Gibellina dopo la devastazione del sisma del Belice. Sue sono le macchine sceniche per l’Orestea di Eschilo riletta da Emilio Isgrò, andata in scena tra l’83 e l’85, attualizzando la tradizione della tragedia greca e le figure del mito, mentre la comunità diventava platea e la piazza palcoscenico per un movimento di rinascita.
Nell’86 sui ruderi di Gibellina, dove Alberto Burri aveva iniziato a costruire il suo Grande Cretto, Pomodoro è al fianco di Christopher Marlowe per la messa in scena di Didone regina di Cartagine, mentre nell’89, ancora nell’ambito delle Orestiadi, progetta scene, maschere e ornamenti per la La passione di Cleopatra del poeta egiziano Ahmad Shawqi, con la regia di Cherif.
Mai realizzato il progetto per il cimitero di Urbino, vincitore nel ’73 del concorso bandito dal Comune, ma fortemente «avversato da alcuni maggiorenti locali – come scrisse Giulio Carlo Argan – che non digeriscono la trasgressione alla consueta tipologia cimiteriale e un sentimento del sacro incontestabilmente autentico, ma non conformista».
Nella forma dolce del colle si apriva un’enorme fenditura a croce, destinata ad accogliere i loculi dei defunti. Il paesaggio diventava scultura calpestabile, tra immanenza e trascendenza, tramutando la distanza dello sguardo in lentezza del passo e in raccoglimento. Un’immagine-epifania, sopravvissuta come forma utopica o miraggio, forse l’opera più visionaria e commovente di Arnaldo Pomodoro, ancor più potente nello smacco della mancata realizzazione e in quest’invisibilità che è già, in sé stessa, evocazione della morte e spinta costruttiva per il suo superamento.
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