Le guerre dimenticate non esistono. Sono una invenzione della propaganda

dell’occidente per nascondere la propria viltà, l’indifferenza, le sconfitte. Le guerre dimenticate le conosciamo benissimo, le guardiamo ogni giorno, decifriamo visivamente,

con le vittime gli strazi le conseguenze.

Soltanto che alla fine non le vogliamo riconoscere e diciamo che sono piccole guerre, periferiche, inutili, primitive che non valgono neppure “un granatiere americano”. Sì, come Bismarck e le guerre balcaniche, la sapeva lunga il cancelliere di ferro, anche quelle erano guerre dimenticate anzi da dimenticare. Soltanto che poi costituivano la prova generale della Prima guerra mondiale. E il suo Reich potente e intoccabile venne spazzato via.

Allora noi siamo la parte del mondo che può permettersi il lusso di fingere di dimenticare le guerre, di voltare la testa dall’altra parte, di annoiarci un po’ schifati per “tutti questi morti... queste brutalità... le mosche... l’odore...”. Perché noi le guerre le facciamo solo per fare guerra alla guerra, solo per fare con la guerra la pace. Che bugie, che impudenza! Gli altri, i dannati della terra, no. Loro le guerre le fanno per sopravvivere o per uccidere. Troppo poco per interessarci.

Nessuna leggenda eroica

Queste guerre impregnano gli spiriti, li forgiano, li deformano. Non c’è posto nelle loro guerre per le leggende eroiche, soltanto per eventi crudeli. Si può dire che in quelle guerre occultate, da noi oscurate, le raffiche di mitragliatrice abbiano falciato l’eroismo, e che tutte quelle falsità e scempiaggini sulla guerra che sono, quelle, davvero nostre, vi agonizzino non avendo più né corpo né credito. Sono rimasti dei fossili che appartengono soltanto al funerale dell’occidente, che loro, gli umiliati e offesi, non si possono permettere, su cui sghignazzano con amara ironia.

Le guerre “dimenticate” dunque ci restituiscono l’immagine della vera guerra del XXI secolo, più sobria verrebbe da dire, più smorta, più impastata di ferocia, di noia, di paura, di malinconia, di silenzio. Essa è semplicemente orribile, come è davvero la guerra eterna, nuda e cruda, non imbellettata di retorica. I protagonisti in uniforme e civili sono uccisi senza gloria. Senza sapere da come e da chi, senza veder nulla, in uno scatenamento di forze oscure tra cui impera, unico, il caso.

Per loro bisogna coniare e usare come strumento di analisi il concetto di guerra infinita, ovvero di guerra per cui non arriverà mai il giorno della pace. Che cosa c’è di più diverso dalle nostre mischie classiche ben inquadrate nei libri della nostra Storia? Si combatte, anche a lungo, poi vincitori e vinti srotolano i loro conti e si ritrovano davanti a un tavolo per sancire la fine dell’ordine antico e il precario equilibrio di un ordine nuovo, con perdite e guadagni. La vita ricomincia, si lavora freneticamente a riparare i danni, a ristabilire contatti e connessioni, il mondo riprende cigolando a fissare una nuova normalità senza più guerra. Che diventa ricordo, riflessione, gloria o voglia di rivincita e odio.

E invece oggi la guerra non finisce mai, si incrosta nel quotidiano calvario di luoghi e di genti, li accompagna per generazioni. La Somalia ad esempio: la guerra è iniziata con una rivolta contro il tiranno Siad Barre all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Non è mai finita: trent’anni di macelli distruzioni fughe di popoli interi che diventano profughi permanenti. Chi è nato a Mogadiscio, a Merka, a Chisimaio all’inizio di questa tragedia del Corno d’Africa oggi ha trent’anni, se non è morto. La vita che potrebbe raccontarvi è un lungo elenco di eroi negativi, di prepotenti protagonisti di conflitti diversi che la continuità unifica in un unico disastro umano: Bocca Larga, i signori della guerra, i tribunali islamici, gli shebab...

In un luogo così, e sono molti nel mondo della globalizzazione perfetta, avrete difficoltà a farvi raccontare quando e perché è scoppiato il conflitto. Gli eventi a cui si è sopravvissuti sono così antichi e intricati, divenuti leggenda, che nessuno ricorda più dove era nel momento in cui tutto è iniziato e scoprirono la brutalità e la laidezza di quello che sarebbe stato per loro, da allora, vivere. Oppure potrete raccogliere, sembra incredibile, mille versioni diverse: è stato il giorno in cui spararono alla manifestazione... no no, fu quando il presidente ordinò... ma non dite sciocchezze, sono stati gli americani che arrivarono con...

Il conflitto siriano

Un’altra guerra infinita e subdolamente dimenticata è quella siriana. Solo undici anni fa ma non c’è possibilità di memoria, una storia decifrabile di quello che è accaduto dal 2011 a oggi. E che continua ancora.

Perché la generazione che ha assistito all’inizio di questa tragedia – la rivoluzione siriana che si fa rivolta pacifica e poi battaglia – non esiste più, semplicemente, è stata sterminata nei dieci anni successivi, non può raccontarsi.

Gli elementi nobili di quella storia, con il sogno di un mondo nuovo in cui la mafia feroce degli Assad non avesse più posto, si sono sacrificati purtroppo a vantaggio di altri che non avevano i loro ingenui e puri ideali: jihadisti predoni milizie straniere.

Non ci sono storici della guerra siriana, intendo non inutili compilatori occidentali di frammenti d’archivio, che l’abbiano vissuta tutta intera e siano in grado di raccontarla. Ci sono solo storie siriane che non coincidono in nulla se non nella narrazione di una strategia di sopravvivenza che ne ha fatti uomini diversi da noi, ha messo a nudo i loro cuori; e il cui mondo interiore non ha con noi, privilegiati della lunga pace, spazi comuni di dialogo e di emozione.

Chi vive le guerre infinite, a sue spese, è entrato in una dimensione diversa della condizione umana. Un certo giorno a una certa ora in quel luogo, Siria Cecenia Libia Sahel Somalia Darfur Nigeria Birmania Afghanistan, il suo essere uomo o donna o bambino si è come raggrinzito.

Vivere e uccidere

Tutto ciò che fino ad allora era stato il suo esistere, amare, imparare, odiare, sognare, accudire ambizioni, crescere con gli altri e negli altri, è scomparso, è diventato impossibile. Quello che lo circondava e rassicurava si è come disintegrato: la via il quartiere la città il villaggio sono diventati polvere e fumo, maceria e labirinto indecifrabile; le cose che possedeva, povere cose che aveva accumulato si sono ridotte a quanto può contenere uno zainetto o a una valigia sfondata. Tutto quello che ha consiste in quello che ha indosso. Lavorare per migliorare la propria condizione? Impossibile. Il suo cibo quotidiano ormai è quello che viene distribuito ogni tanto, quando la battaglia si attenua, da organizzazioni caritatevoli o da quelli che hanno la forza le armi il denaro. Il suo sogno ora, l’oggetto a cui forse è collegata qualche possibilità in più di restare vivo per qualche ora o giorno, è un’arma, un mitra, un kalashnikov. Vivere e uccidere sono diventate parole equivalenti, nell’una si specchia la possibilità dell’altra. Essere buoni gentili, amare gli altri? Lussi che nessuno può più permettersi.

Nessun popolo in guerre infinite è stato più “dimenticato” da noi di quello afghano. Combattono si può dire dall’Ottocento, per non voler scendere ancora più indietro nel tempo. Gli afghani contano gli anni scalandoli dal nome degli invasori: inglesi sovietici americani... invasori che con sanguinante eroismo hanno sempre sconfitto e ricacciato dal loro povero paradiso di pietre e di cieli infiniti.

Chi si è mai occupato degli afghani in questa nostra parte del mondo se non per invaderli e per fare loro spropositate promesse di portarli, legati mani e piedi secondo la nostra volontà, dal loro medioevo al nostro mondo moderno: il comunismo l’economia di mercato la democrazia socialista o liberale la minigonna al posto del chador il dollaro o il rublo al posto del dio della sharia e della zakat...

Gli afghani sono figli delle guerre, da piccoli la prima cosa che imparano è smontare e rimontare un fucile, il vecchio Enfield con cui il bisnonno ha ammazzato gli inglesi o il kalashnikov del padre o del fratello con cui ha eliminato russi e americani. Non è la conseguenza di una natura aggressiva e indomabile, di uno spirito di lotta e di combattimento che noi abbiamo nel corso degli anni sopito e i popoli “primitivi” continuano a coltivare come eterna condanna. Le razze guerriere del vecchio armamentario colonialista. È invece il primo indispensabile atto per sperare di diventare adulti, per non essere uccisi, per abituarsi a quella che sarà la loro vita senza possibilità di incamminarsi in vie diverse.

L’Ucraina

Noi viviamo beatamente indifferenti in un mondo di bambini guerrieri che diventeranno soldati, miliziani, ribelli, terroristi come li definiamo per relegarli in un inferno che affermiamo non ci appartiene ed è invece figlio nostro, specchio di ciò che abbiamo accettato e fatto crescere.

E poi c’è l’Ucraina, la guerra che invece non dimentichiamo, che occupa e preoccupa i nostri pensieri. Temo che gli ucraini stiano per entrare anche loro nella sciagurata geografia dei popoli delle guerre infinite, la loro vita a poco a poco in lunghi interminabili mesi si è già sciolta nelle sirene che annunciano allarmi aerei, nelle code disperate di treni e auto che portano verso rifugi per ora sicuri, nei destini di profughi. La loro vita come quella dei siriani si è capovolta, non più in superficie, si svolge nella città sotterranea dei rifugi, delle cantine, dei sotterranei di fabbriche e officine.

Gli adolescenti cominciano a imparare le mosse tragiche dell’imbracciare il fucile, prendere la mira, sparare. I progetti studiare, andare all’estero si annullano nella quotidianità oscena della guerra e del non morire. Ma questa non è una guerra dimenticata!, insorgerete. Non lo è perché vicina geograficamente, europea negli aggressori e nelle vittime, che scivola pericolosamente accanto all’Apocalisse. Ma quanto durerà questa attenzione? Forse soltanto fino a quando gli ucraini ci stancheranno come i siriani gli afghani i migranti dalle “guerre piccole”. E l’economia, il nostro intoccabile vitello d’oro, ci rammenterà che dimenticare le guerre è un buon modo per restare ricchi.

Questo articolo è tratto dal numero 3/2022 di Vita e Pensiero, il bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

 

© Riproduzione riservata