«Io vado.»

Mio marito mi dà il solito bacio in fronte, con gli occhi aperti, poi si volta ed esce, borbottando fra sé gli impegni della giornata. Alle spalle si lascia una scia di profumo al sandalo.

Finalmente resto sola.

Il primo caffè della giornata lo bevo al lavoro, me lo prepara il signor Felice, il mio titolare. Sento l’aroma appena varco la porta del suo negozio di rigattiere, poi lo raggiungo nel retrobottega e lo trovo ad armeggiare con la cuccuma. Lui mi porge la tazzina fumante, senza zucchero. L’accompagna con un sorriso e una lingua di gatto che prende da una scatola di latta rossa e blu.

Appena sveglia, invece, sorseggio una tisana al tiglio, dicono che sia rilassante. Di caffè durante la giornata me ne offrono già parecchi, e guai a dire al signor Felice che non lo bevo o, ancora peggio, che lo gradirei decaffeinato.

Riempio il bollitore con l’acqua e, quando è pronta, ci immergo dentro il filtro. Porto la tazza rovente in bagno e l’appoggio sul lavabo. Mentre aspetto, mi guardo allo specchio e arriccio il naso con una smorfia che evidenzia le rughe intorno agli occhi.

Ci siamo quasi.

Sposto la tenda e la raccolgo nel fiocco che ho fatto realizzare quando siamo venuti ad abitare qui. L’ho voluta io questa casa, a tutti i costi. Mi sono piaciuti i soffitti alti, le porte e i battiscopa bianchi che incorniciano il parquet di rovere.

Mi siedo sul bordo della vasca. Chiudo gli occhi e respiro. So che quando li riaprirò troverò le tapparelle della portafinestra di fronte già alzate. L’ora è sempre la stessa, il suono delle campane si sovrappone all’arrotolarsi dell’avvolgibile.

La luce entra e lei stringe gli occhi come se il sole l’avesse trovata impreparata.

Ha una vestaglia grigia che le sta grande. Forse è una camicia da notte, non riesco a vederla bene.

Sorride da dietro il vetro.

“Dai, Cecilia. Apri la portafinestra ed esci sul balcone, così ti vedo e la mia giornata sarà migliore, come se mi facessi una carezza.”

Una carezza me la faccio da sola, sulla gamba che sta iniziando a formicolare, immobile a contatto con la porcellana fredda.

“Se adesso esci, io ti giuro che trovo il coraggio e vengo da te.”

Per fortuna non si muove, perché io il coraggio non ce l’ho mai avuto.

Resta a godersi il sole che le riscalda il viso pieno di lentiggini. Sembra un gatto che ha trovato la sua posizione preferita.

“Almeno resta. Resta e non andare via” sussurro, stringendo il manico della tazza con la tisana oramai tiepida.

Alle sue spalle, riesco a intravedere un letto sfatto e dei polpacci villosi e affusolati.

Le lenzuola sono bianche, come le mie. Non concepisco altra nuance per la biancheria della camera da letto.

“Sembra la stanza di un ospedale!” mugugna mio marito.

“I colori forti fanno male al sonno” replico io.

Il bianco è il colore degli indecisi, di chi si prende tempo per scegliere, anche se poi sa benissimo che delle tinte accese farà a meno, restando in balia del rimpianto.

Lei alza le braccia al cielo, come se volesse toccare il soffitto. Poi le riabbassa e mi pare di sentire il suo sospiro.

Mi basta questo, ogni mattina.

Vorrei sapere tutto di lei, vorrei che il tempo potesse riavvolgersi come le tapparelle che tira su alle sette in punto. Ma non è possibile, quello che è stato è stato.

E quindi eccomi qui, senza figli, a quarantotto anni, con un marito da tre. L’ho sposato in un tailleur vintage, ovviamente bianco, che il signor Felice ha insistito per regalarmi. Alla cerimonia c’erano solo venti invitati, ma avevo ben due damigelle, sua figlia Lidia e sua nipote Alice, di nove e otto anni. Sono cugine, ma le scambiano tutti per sorelle. Passano interi pomeriggi in negozio, quando tornano da scuola.

Per il mio matrimonio avevo sempre sognato un abito da principessa, di quelli ampi con un cerchio a sorreggere la gonna. Ho iniziato da piccola, quando le mie amiche, per Carnevale, avevano vestiti da damigella dell’Ottocento o da Primavera, tutti con quel benedetto cerchio.

Mia madre invece mi faceva mascherare da Pierrot o da Pulcinella, e dentro di me covava il rancore. Avrei almeno voluto truccarmi, ma ogni volta che le chiedevo di mettermi il rossetto, esclamava: “Quello è per le ragazze grandi e belle”. Quelle come me, solo graziose, non lo potevano indossare. Quasi fosse una punizione.

Forse è per questo che a diciassette anni ho ceduto a un ragazzo con i capelli rossi, e l’unica volta che ci siamo lasciati andare abbiamo fatto lei, Cecilia.

Che adesso è davanti a me, dietro a quella portafinestra, come ogni mattina. Ogni tanto sento un’irrefrenabile voglia di uscire da questo piccolo, pusillanime nascondiglio, raggiungerla e confessarle tutto. Poi, però, resto ferma nelle mie intenzioni. Immobile e muta.

“La dovete affidare a chi può amarla con maturità. È l’unica cosa da fare.”

Così ci dissero.

Col tempo ho capito che non esiste un modo di amare maturo, e nemmeno infantile, adolescenziale.

L’amore è amore. Perché io a diciassette anni non sarei stata capace di amare mia figlia?

“Esci Cecilia, esci. C’è il sole e non fa freddo. Esci.”

I polpacci sul letto si muovono. Lei si volta e richiude la tenda.

Se n’è andata e il mio cuore si fa più piccolo.

“Devo aspettare altre ventiquattr’ore per rivederti. Quando ti incrocio per strada, io mi nascondo, evito il tuo sguardo perché ho paura che il mio possa tradire tutta l’emozione che provo solo a passarti accanto.”

Per fortuna ho sempre tanto da fare al Caffè Napoli. Anzi, è ora di prepararsi per andare al lavoro.

In realtà non è proprio un lavoro, visto che non ho neppure un contratto. Il signor Felice gestisce tutto da solo e mi paga quando può. È sua moglie Paola che mi ha chiesto di dargli una mano con la contabilità, visto che non si fida tanto delle capacità finanziarie del marito. È un’amica di mia zia, la signora De Luca, la loro vicina di casa.

Io ho sempre avuto a che fare con i conti e, quando l’azienda dove lavoravo ha chiuso i battenti, ho trovato la mia dimensione in quel negozio scalcagnato ma pieno di vita e, soprattutto, di caffè.

“Non me ne capacito. Perché ti ostini a non cercare di meglio?” mi ripete mio marito nei giorni in cui torna scocciato dal suo, di lavoro, e non capisce perché, nonostante abbia ricevuto proposte economicamente più allettanti, io resti lì.

Ma come faccio a spiegargli l’atmosfera che regna in quella bottega? Come posso descrivergli quell’incredibile via vai di persone che, anche se non comprano nulla, poi vanno via sempre contente?

Sto per alzarmi, quando ricompare Cecilia. Con una mano cinge una tazza come la mia, con l’altra apre la portafinestra ed esce.

Adesso che la guardo meglio è inequivocabile.

Inizio a piangere piano.

I polpacci sono spariti dal letto e sono comparsi accanto a lei.

Un ragazzo con i capelli ricci la abbraccia da dietro e appoggia le mani su una pancia tonda che prima di adesso non avevo mai notato.

Mi asciugo in fretta gli occhi stropicciati.

“Mi vesto e corro da te, figlia mia. Che cosa devo aspettare ancora? Quale altro segno devo ricevere? Non sono stata mai una madre, ma tu tra poco lo diventerai.”

E quindi io ora mi sciacquo la faccia, mi infilo i jeans e arrivo.

Non è vero che non ho il coraggio. Io vengo sotto al tuo palazzo e suono al tuo citofono.

E ti raggiungo nella tua camera da letto con le lenzuola bianche, come piacciono a me.

Come piacciono a noi.


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