Avido, luminoso e insolente: cosa non abbiamo capito del Veneto

Da un posto a volte non si riesce a venir fuori perché capita che non sia un luogo ma un tempo che non vuole finire mai, dove la vita non è un tempo ma un luogo di cui non si trova la porta di uscita. Così è il Veneto de Le città di pianura, di Francesco Sossai. Regista nato a Feltre nel 1989 e cresciuto nel bellunese, in questo autunno di disequilibri mondiali ha portato tutti al cinema a incantarsi con una storia regionale. È la storia di Doriano e Carlobianchi, due uomini veneti più verso i sessanta che i cinquanta, che incontrano Giulio, timido universitario napoletano che potrebbe essere loro figlio. È la storia del loro peregrinare di bar in bar, nel moto perpetuo che li porta a cercare di bere l’ultima e poi l’ultima e poi l’ultima ancora, dai. Il Veneto dei “marsi” Doriano e Carlobianchi, in buona sostanza, sono due marci. In dialetto veneto: marsi. La figura del marso è una pietra d’angolo del tessuto sociale nordestino. Assai diversa da quella in via d’estinzione dell’anziano che gioca a briscola e – imperturbabile - assume ombre di rosso alle sei del mattino, il marso ha una resistenza atletica simile, ma non condivide il medesimo equilibrio interiore. Il marso non è statico, vaga seminando panico e aneddotica leggendaria con il suo scanzonato tormento. Se in un giorno – o più facilmente in una notte – di dubbi esistenziali ti trovassi davanti a un marso, facilmente verrai travolto dal suo inesorabile campo magnetico. Personalmente, credo di non aver mai compreso il brivido del campanilismo prima di vedere Doriano impegnato a vomitare un cocktail di gamberi sul sagrato della chiesa del mio paese, sotto all’incombere lunare del viadotto che dal ‘95 taglia una valle intera colonizzando gran parte delle mie visioni di scrittrice. Credo, in effetti, di non aver neanche mai pensato prima che quello era sul serio il mio paese. «Distruggeranno tutto, non rimarrà nulla di questa regione, solo infrastrutture per spostarsi e nessun luogo in cui andare», dice un personaggio comprimario, un conte asserragliato nella sua dimora nobiliare minacciata da un’altra autostrada ancora. La mobilità veneta su gomma è così, persecutoria come le rotonde che fioriscono più dei crocus a primavera. Viene da pensare al Vitaliano Trevisan di Tristissimi giardini (Laterza) quando scrive del «Veneto pancreatico che digerisce sé stesso», e ancora una volta ad Andrea Zanzotto e al suo progresso scorsoio. Ma ci sono anche i Sillabari di Goffredo Parise, c’è Piovene e anche Gianni Celati, che veniva da un’altra pianura ma sapeva camminare osservando le condizioni di luce sulle rovine dei mondi di ieri. C’è quell’abbandono con ancora il cappellino della festa che è stato intercettato pure dalle generazioni più giovani e da altri codici narrativi, come accade nel graphic novel Malibu di Eliana Albertini (Beccogiallo). Nel caso di Albertini, Malibu è un’ex discoteca abbandonata dal nome tropicale incastonata nel mezzo della provincia di Rovigo (anche se, come ci insegnano Dori e Charlie, Rovigo non esiste). La lost generation del Veneto: ecco il film più bello di Cannes Golosa di zucchero Con questo film è successo che qualcuno, nel narrare il profondo Veneto, passando per la forma è andato in cerca della sua anima. Trovandola ha carpito qualcosa che poteva valicare i suoi confini, condivisibile come sono certi momenti di disperazione che fanno il giro e si trasformano in risata. Quella che ci mostra Sossai e che Giulio impara a conoscere è una terra cruda, non troppo di rado avida e ottusa, ma anche pronta alle aperture luminose. Golosa di zucchero, come Zanzotto nei primi versi della poesia Nel mio paese. Una terra anche insolente, in cui si piega la testa al padrone per fame, ma fino a un certo punto, oltre il quale si infila un pugno di occhiali nel borsone per poi andare a bere senza alcuna remora. Per questo lo sguardo di Genio è strafottente, mentre guarda l’arrivo di un impeccabile Roberto Citran nel ruolo di sior paron. Un padrone che scende sul piazzale della fabbrica in elicottero e vuol farsi chiamare cavaliere, ricordando un po’ quel Giorgio Panto erede di un industriale specializzato in tapparelle, poi sponsor di Colpo Grosso, imprenditore televisivo locale e proprietario di Antenna Tre, politico versatile tra Forza Italia e Autonomia veneta, morto a un attimo dalla crisi, nel 2006, precipitando sulla Laguna di Venezia ai comandi del suo stesso elicottero. Non sappiamo se Sossai abbia, anche solo per un attimo, pensato a quell’elicottero, ma abbiamo la certezza che nel trattare i suoi luoghi e le sue persone si è cimentato in un riuscitissimo esercizio di sospensione del giudizio, e lo ha fatto con un cast perfetto. Guardando Sergio Romano, Pierpaolo Capovilla, Filippo Scotti, Andrea Pennacchi sembra che quelle storie siano uscite loro da dentro e non siano arrivate da fuori. Anche i luoghi parlano, e la tomba Brion si rivela una macchina per elaborare il lutto di una terra intera. I passi di Trevisan e gli esperimenti di Maino: la meravigliosa linea veneta della scrittura Testa bassa e “bareta fracada” Il Veneto è un luogo che ama narrarsi culla del Rinascimento e motore economico d’Italia e in cui, di fatto, intere città di pianura, di collina, di montagna, di laguna, versano in una stagnazione esacerbata dalla speculazione e dall’avidità. Ha vissuto secoli di fame impietosa, di pellagra e di emigrazione interna ed estera, poi un boom miracoloso e con esso l’orgoglio che sfiora la tracotanza di chi ce l’ha fatta con fatica e abnegazione. Testa bassa e bareta fracada, si dice, che secondo me è intraducibile, ma possiamo parafrasarlo con: andare avanti a testa bassa e con il berretto ben infilato a proteggerci dal vento, dalle intemperie, da tutto. Ora che la povertà avanza, il Veneto si rifugia nel diniego, nella dipendenza dal lavoro o in quella dal bicchiere. Ognuno, alla paura, reagisce come può. In questo frammento geografico rappresentato da Sossai, che solo in apparenza è un mondo a parte, iperlocale e ipercaratterizzato, ma che funge da cartina tornasole del lentissimo disfacimento del mondo neo-liberista e delle sue vestigia, troviamo spazio per il sollievo nei primissimi piani dei volti vasodilatati di Dori e Charliewhite. Quando è difficile pensare un futuro, è riposante vedersi specchiati negli occhi rossi, nei denti scuri di chi composto in un struttura non sa stare. Doriano e Carlobianchi, secondo i criteri dello standard borghese, sono dei falliti. Vivono in modo analogico, sono fuori dal ciclo della produzione e della competizione. Generano storie con il loro muoversi sconclusionato tra i bar, le case con i cartelli vendesi, i capannoni abbandonati, le fabbriche chiuse. Sono anarchici e anticapitalisti per istinto. Sono diventati vecchi senza essere cresciuti. C’è voluto del talento per diventare adulti senza essere cresciuti, lo cantava Battiato rifacendo Jacques Brel e, a modo suo, lo dice anche Doriano a chi gli chiede se cresceranno mai. Il pezzo era la Canzone dei vecchi amanti e vecchi amanti della vita, di quella terra e della propria amicizia sono i nostri Dori e Charlie, ora grazie all’opera di Sossai per sempre liberi di cercare l’ultima tra le città di pianura. I cent’anni di Alberto Ongaro, che era una possibilità assurda