- Tutto è cominciato con una domanda: hai mai desiderato che tuo padre morisse? Prima di rivolgerla a me stesso – e di ottenere una risposta a cui arriveremo tra poco –, l’ho sottoposta ad amici e no
- Chuck Palahniuk una volta ha detto che è importante costruire un romanzo intorno a un problema insolubile, di quelli che fanno litigare la gente. La mia domanda provocava rabbia, sorpresa, colpa
- A quattro anni dal suo esordio, Emanuele Altissimo scrive un romanzo interessante, di sottile tensione psicologica, che con il ritmo di un’indagine criminale fruga nelle nostre case, nei nostri armadi ordinati, tra le parole che non osiamo pronunciare.
Tutto è cominciato con una domanda: hai mai desiderato che tuo padre morisse? Prima di rivolgerla a me stesso – e di ottenere una risposta a cui arriveremo tra poco –, l’ho sottoposta ad amici e no. Gente qualunque, provvisori confidenti della vita notturna.
Sei pazzo. Mai e poi mai.
In effetti, una volta è successo.
Per me tu hai bisogno di uno bravo. (Bravissimo, ho pensato.)
Chuck Palahniuk una volta ha detto che è importante costruire un romanzo intorno a un problema insolubile, di quelli che fanno litigare la gente. La mia domanda provocava rabbia, sorpresa, colpa.
Mai indifferenza.
Non vedevo mio padre da anni, anni trascorsi in una cortina di rancore, non saprò mai se reciproco, anni in cui la colpa mi divorava pezzo dopo pezzo. Ero stato io ad allontanarlo? No. Avevo desiderato che si allontanasse? Sì.
Attento a ciò che desideri, mi aveva detto uno dei tanti sconosciuti.
L’avvelenatore è nato una sera di quattro anni fa. All’improvviso il pensiero di mio padre è arrivato come un pugno. Ero in bagno, davanti allo specchio, studiavo la mia faccia così simile alla sua. I tic agli occhi, un’eredità che lui alla fine era riuscito a controllare, continuavano a tormentarmi. E se la polizia telefonasse stanotte per dirmi che hanno trovato il suo cadavere? E se scavassero nel nostro passato, quelli scavano sempre, e cominciassero a fare domande, a seguirmi, a piazzare delle cimici nella mia auto?
In altre parole, non avevo idea di come funzionasse un’indagine per omicidio.
Esiste la scrittura ed esiste la vita, sì, ma è importante che la prima non tradisca la prima, soprattutto se parliamo di noir.
All’inizio avanzavo nel buio, divoravo la cronaca nera, sfogliavo il Codice di diritto penale. Sono laureato in letteratura, il diritto era una nebulosa di norme che faticavo a visualizzare. Cosa significa accertamenti irripetibili sulla persona indagata? Importunavo un amico avvocato con le domande più assurde – non è che stai per commettere un omicidio, vero?
Eppure, niente funzionava.
Finché non ho conosciuto un agente della Digos.
È stato lui a rivelarmi che nel Reparto investigazioni scientifiche i carabinieri indossano un camice. Che non siamo in America, dimentica CSI, la persona indagata riceve un mandato di comparizione prima dell’interrogatorio, e no, i famigliari non possono essere accusati di avere coperto un parente, e sì, i telefoni sono dotati di GPS tracciabile, quindi attento alla costruzione degli alibi. Per non parlare della rilevazione delle impronte digitali, l’inchiostro appartiene al passato.
E così, dopo un anno di telefonate infinite, ripetitive, quando ormai avevo smesso di sbattere le ali in una stanza chiusa, è stato lui a domandarmi se avessi mai desiderato la morte di mio padre.
Ricordo che c’era stato un lungo silenzio.
Gli ho risposto che sì, lo avevo desiderato molte volte. Pensavo che se fosse scomparso, la vita della mia famiglia sarebbe migliorata (la mia, avrei dovuto dire). Non mi vergogno ad ammettere che quel pensiero era una scarica di adrenalina, la promessa di un futuro pieno di possibilità.
Mi ha chiesto se lo pensassi ancora.
Non ho saputo rispondergli, ero lontano dal capire che in realtà scavavo dentro me stesso, in quella zona inconfessabile che ognuno di noi si vergogna di mostrare agli altri. Pensavo alle parole del mio fisioterapista, un francese che aveva scelto di rivedere il padre solo il giorno dei funerali – era un narcisista manipolatore.
In quell’istante ho capito che non volevo questo. Che sognavo di guidare fino alla casa dove eravamo cresciuti, ritrovarlo, parlare con lui. Ma sapevo anche di non averne il coraggio. E che per il momento, ancora una volta, era più facile affidare quel compito alla scrittura.
Essere figli significa, in una certa misura, essere in balia di chi ci ha generati; ogni adulto porta dentro di sé questo marchio nascosto. Nelle campagne dove Arno Paternoster è cresciuto, ogni anno i contadini spargono concimi azotati, fosforo, cloruro di ammonio: quando lui era bambino, suo padre gli mostrava le sinistre iridescenze delle pozzanghere per ricordargli che quelle sostanze scorrono anche nell’acqua con cui ci dissetiamo. Ha fatto questo per tutta la vita, il dottor Paternoster, contaminare ogni pensiero di suo figlio, ogni scelta della famiglia come un veleno nascosto; ma era un medico stimato, un punto di riferimento in paese: nessuno avrebbe mai voluto credere che facesse un uso malato della sua autorità. Adesso Arno è un uomo adulto, ha un buon lavoro, una bambina e una moglie in gamba, che fa la poliziotta. Non vede suo padre da anni, eppure lo ha sempre accanto come un’ombra: odiare qualcuno non ci libera della sua presenza. E quando il dottor Paternoster viene ucciso, è naturale che sia Arno il primo sospettato. Arno che era appena tornato di nascosto nella casa di famiglia. Arno che non ha un alibi.
Con una scrittura tesa, precisa, martellante questo romanzo ci avvicina al cuore di una relazione familiare dolorosa ai limiti dell’indicibile e al tempo stesso tratteggia l’affresco di una comunità di provincia incapace di liberarsi dei propri fantasmi.
Emanuele Altissimo è nato nel 1987 a Torino, dove si è laureato con una tesi su David Foster Wallace e ha frequentato il biennio di scrittura creativa della Scuola Holden. Ha lavorato presso l’Autorità nazionale di regolazione dei trasporti e oggi insegna in un liceo. Nel 2019 ha esordito con il romanzo Luce rubata al giorno, vincitore del premio Kihlgren. Ancora da Bompiani è appena uscito L’avvelenatore. A quattro anni dal suo esordio, Emanuele Altissimo scrive un romanzo interessante, di sottile tensione psicologica, che con il ritmo di un’indagine criminale fruga nelle nostre case, nei nostri armadi ordinati, tra le parole che non osiamo pronunciare, ci porta nel buio per farci desiderare la luce: perché è proprio quando nessuno crede più in noi che dobbiamo lottare per la nostra libertà.
Beppe Cottafavi
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