Il protagonista dell’ultimo libro di Andrea Bajani, L’anniversario, Feltrinelli, 2025, dopo un’infanzia, un’adolescenza segnate da una violenza psicologica sottile e feroce, abbandona i genitori: «A raccontare è un maschio che decide di rifiutare l’eredità di un padre come ce ne sono stati e ce ne sono in milioni di case»
Abbandonare il padre, abbandonare la madre. Interrompere qualsiasi rapporto con loro, sperare, cercare di dimenticarli, andare avanti. È possibile? È lecito? Il protagonista dell’ultimo libro di Andrea Bajani, L’anniversario, Feltrinelli, 2025, dopo un’infanzia, un’adolescenza segnate da una violenza psicologica sottile e feroce, abbandona i genitori. L’imperativo è uno: salvarsi. Dieci anni dopo questo addio, si guarda indietro per raccontare la famiglia che ha tagliato fuori dalla sua vita.
Bajani, per iniziare. Facendole le mie domande e parlando quindi del suo protagonista devo riferirmi a lui, usando la terza persona – uomo diverso dallo scrittore con cui parlo – , o posso riferirmi a lei – autore?
Direi al narratore, o al protagonista, come in ogni romanzo. C’è una voce che prende la parola e comincia a raccontare. Il vecchio magico trucco della letteratura. C’è una persona che racconta la storia, e altri che ascoltano. Qui a parlare è un figlio. E chiede ascolto perché ha qualcosa di importante da dire.
Parliamo del figlio, allora. Perché questa immobilità da adolescente? Per quale motivo da ragazzo non si oppone a un sistema famigliare marcio?
Quello che mi premeva era mettere a lavorare la macchina del romanzo su un sistema, come lei giustamente lo definisce. La famiglia. Famiglie e romanzo sono organismi simili, mettono in scena enormi complessità senza risolverle. L’anniversario racconta un universo fatto di violenza sottile, connivenze, sottomissioni – e tenerezza, e desiderio di salvezza. Come moltissimi sistemi familiari. Quindi diciamo che si tratta di un sistema esemplare che vive di codici incomprensibili al di fuori. Il narratore è stato a lungo in quel sistema, senza capirlo, è il suo sangue. Poi lo rifiuta, e lo fa con un gesto istintivo.
La scelta di abbandonare i genitori, sottrarsi, è naturalmente un modo di salvarsi. Crede sia anche una punizione, però?
Credo sia un diritto che a un certo punto lui sente di avere, semplicemente. E questo mi pare il cuore del romanzo. La rottura di un tabù culturale molto forte nel nostro paese. Ogni relazione, se considerata nociva, tossica, abusante, può essere interrotta per diritto. Per salvaguardia, per rispetto, per dignità, ecc. Rapporti di coppia, di lavoro, matrimoni, amicizie. Ma se a essere nociva, tossica, abusante è una relazione familiare, questo non si può fare. Questa è una delle questioni centrali de L’anniversario. Rompere il tabù. Si può.
Sia che il figlio si è sottratto per punire i genitori sia che no, la madre, che nel romanzo figura come vittima, ne subisce le conseguenze.
Sono contento che lei citi la madre, che è in fondo la vera co-protagonista del romanzo. È una specie di fantasma che prende la parola. Dentro il sistema familiare a lei è stata assegnata culturalmente la parte dell’inesistenza, nel momento stesso in cui è il padre – e anche qui aggiungerei culturalmente – a fornire la versione ufficiale. Quello che fa il figlio, che racconta la storia, è restituirle il centro della scena, farla esistere dentro la storia che racconta. Da bimbo e poi ragazzo che ruolo ha questo figlio nella propria famiglia? Che ruolo sente di avere, lui, e che ruolo ha per i genitori?
È una domanda la cui risposta può essere trovata soltanto leggendo. Ogni risposta sarebbe semplificatoria, perché il figlio è abitato da spinte e controspinte, da timori, slanci, desideri contradditori.
A proposito dei ruoli. Se non erro, di nomi propri in questo romanzo non ce n’è. Perché?
È la domanda che mi fanno da sempre. Quando pubblicai Cordiali saluti, vent’anni fa, tutti mi chiedevano come mai il protagonista non avesse nome. Mi sembra che ogni nome riduca la portata universale della storia che racconto. E siccome la ragione per cui scrivo è di staccarmi dal personale per provare a toccare una condizione generale, sono riluttante a mettere i nomi. Ho ceduto per Se consideri le colpe e Ogni promessa. Poi sono tornato a questo proponimento. Il protagonista di Un bene al mondo è “un bambino”. Ne Il libro delle case l’ho chiamato “Io”, come se “Io”, provocatoriamente, fosse l’unico nome proprio che si può usare con un racconto in terza persona.
Ancora su questo. I ruoli che i genitori avevano scelto per loro stessi, non nella coppia ma nella vita in sé, erano complementari? La madre cercava qualcuno cui sottomettersi e il padre qualcuno da sottomettere?
Questa è la sua lettura, mi pare legittima. Nella mia visione però il loro rapporto non è così univoco.
Lei, però, a volte ha degli slanci d’indipendenza - il lavoro come cassiera, la fuga. Sotto la cenere bruciava qualcosa?
La madre è stata una figura di grande potenza da scoprire scrivendo. È un’infelice con un altissimo grado di stoicismo, e una capacità di tenerezza. Sta nella sottomissione culturalmente imposta, ma dal momento che non considera né la vita né la morte davvero importanti, in fondo polverizza quella stessa sottomissione. Finisce per trionfare, persino, tristemente.
Il padre. Aveva bisogno di spaventare per essere amato scrive nel romanzo. Deve spegnere gli altri per poter brillare lui: è un retaggio del patriarcato o c’è dell’altro?
Il patriarcato, ovvero il dominio del maschio istituito come per legge, è un altro degli organi vitali del romanzo. Ed è vitale proprio perché a raccontare è un maschio che decide di rifiutare l’eredità di un padre come ce ne sono stati e ce ne sono in milioni di case. Si potrebbe anche dire che è un romanzo sul rifiuto dell’eredità patriarcale da parte di un uomo che non accetta di replicare dinamiche culturalmente inaccettabili. Questo è politicamente rilevante.
Il padre confesserà, anni dopo l’accaduto, di aver pensato di suicidarsi la notte in cui ha picchiato la moglie. Un tentativo di proteggere gli altri da sé stesso, sembrerebbe.
Questa è la sua interpretazione di lettore. Anch’essa legittima. Da parte di chi ha scritto quella scena, le posso solo rispondere che non lo so.
Questi genitori sono quindi individui incapaci di lottare contro la propria natura?
Sono esseri umani. Umanissimi. Per questo sono tragici e irrisolti. Provano, credo, come tutti a essere felici. O a sopravvivere a sé stessi.
Se sì, quando ci troviamo a dover combattere contro chi siamo nelle parti più profonde di noi stessi si innesca una sorta di sdoppiamento: siamo chi siamo ma siamo chi non vorremmo essere – e lo sappiamo. Chi siamo?
Chi scrive ha la fortuna di porsi quella domanda a ogni riga, come lei ben sa. Il resto è un’interrogazione silenziosa, a volte tormentosa a volte liberatoria.
Spesso il figlio dice di non ricordare. Cos’è la memoria nel romanzo?
È uno strumento, credo, soprattutto. Il memoir, come genere letterario, la usa proprio come vettore. A me, che ero interessato a scrivere un romanzo e non un memoir, era utile perché diventava uno strumento di scavo del narratore. Che in fondo è una specie di detective, in qualche maniera. Investiga, e la memoria gli fornisce sempre e soli indizi che non diventano mai prove.
Questo libro è una testimonianza, una lettera aperta o un’accusa?
Nessuna delle tre. È un romanzo. Era importante per me mettere come sottotitolo a L’anniversario proprio “un romanzo”. In un’epoca in cui tutto porta il sottotitolo implicito di “una storia vera”, “una testimonianza”, mi sembra importante rivendicare la forza del romanzo, che da sempre, nella sua storia, cerca la sua forma, la modifica, inserisce versi, immagini, sta sempre in una tensione tra ciò che è vero e ciò che non lo è. Il romanzo lo può ancora fare, può produrre potenza con la forza della letteratura, di quel vero che la letteratura sa toccare. Che non è l’aderenza al reale ma la forza della poesia.
Questo figlio, oggi, pensa ai genitori?
Bella domanda, a cui il narratore risponde con un gesto conclusivo. Lasciamo a chi legge il gusto di trovarlo.
Pensa a cosa sarebbe stato se non avesse avuto questi genitori?
Non lo conosco così bene per saperle rispondere. E non lo sento da quando ho scritto l’ultima riga.
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