«Perché non vogliono queste persone? Perché non vanno bene le famiglie come la nostra?», sono le domande che Barbara, oggi 9enne, si è posta dinanzi a uno schermo che lasciava trasparire l’esultanza di alcuni senatori della Repubblica per la bocciatura del disegno di legge Zan. Era il 28 ottobre 2021 e non si spiegava il motivo per cui fossero così arrabbiati con la comunità Lgbt, chi fosse il nemico da combattere.

Barbara è figlia di due donne, la scrittrice Eugenia Romanelli e la giornalista Rory Cappelli, ma fino a quel momento non si era mai imbattuta nell’omolesbobitransfobia.

Non sapeva neppure cosa significasse. Proprio in quell’occasione, le sue due mamme – che non hanno mai fatto mistero della loro formazione familiare poco conforme alla “normalità” impigliata in retaggi culturali secolari – le hanno spiegato che «alcuni politici hanno bloccato la legge che avrebbe punito chi avesse fatto del male alle persone per la loro unicità, per esempio a quelle che hanno una qualche disabilità, oppure alle persone dello stesso sesso che si sono innamorate o a chi ha cambiato sesso».

In quel momento, le hanno ribadito l’importanza di combattere per difendere il diritto all’autenticità che, oggi, le ha portate a racchiudere la loro storia nel libro Nata con noi. Storia di Barbara e delle sue due mamme, edito da Giunti.

Ritorno al passato

«Abbiamo sentito l’urgenza di raccontare la nostra esperienza per pavimentare la strada dei diritti su cui altre persone possano camminare» spiega Rory Cappelli mentre sua moglie si sofferma sull’importanza di creare narrazioni, dare visibilità a storie come la loro per trasformare l’ignoranza e la paura di ciò che non si conosce in comprensione e rispetto delle unicità.

Il momento storico della pubblicazione non è casuale: attualmente, tra gli scranni del parlamento si discute tanto di diritti da concedere o, purtroppo, negare alle cosiddette “famiglie arcobaleno” o in generale alle persone appartenenti alla comunità Lgbt. Nella società contemporanea sono stati superati tanti cliché, si scende sempre più in piazza per assicurare il riconoscimento dei diritti e abbattere differenze, ma Eugenia e Rory non negano la propria preoccupazione dinanzi al pericolo di una retromarcia rovinosa da parte della politica.

Parlano con cognizione di causa: la loro storia ha origine in un passato in cui l’argomento era un tabù. In un periodo storico in cui non c’erano leggi né aiuti e la loro famiglia sarebbe risultata trasgressiva, scandalosa, offensiva, persino illegale. Conosciutesi grazie a un “suggerimento di amicizia”, nel 2009, quando Mark Zuckerberg aveva da poco fatto capolino nelle nostre vite e ancora non eravamo consapevoli dell’impatto che i social avrebbero avuto sulla nostra quotidianità, sono state tra le prime coppie omosessuali convolate a nozze ricorrendo all’unione civile consentita dalla legge Cirinnà, da maggio 2016. Seppur sulla carta siano una «formazione sociale specifica» – denominazione che mira a distinguere le unioni civili dal matrimonio che pare debba restare baluardo delle coppie etero­sessuali – le due donne sono sempre state determinate a portare avanti il progetto di costruzione di una famiglia.

Stepchild adoption

Infatti, nel 2017, all’unione celebrata in Campidoglio, era presente anche la loro piccola Barbara. Un altro salto nel buio fatto qualche anno prima: «L’inseminazione eterologa, in Italia, è un privilegio concesso esclusivamente alle coppie eterosessuali. Dopo la tappa a Barcellona, turbate dal marketing e dalla sensazione spersonalizzante di “fabbrica vita”, avevamo capito che per noi era importante che accadesse nel modo più semplice possibile, senza ricorrere a ripetute stimolazioni e tentativi. E così è stato, grazie a un donatore anonimo in una clinica belga» racconta Cappelli che, per lunghi anni, legalmente non ha rappresentato nulla per sua figlia.

«Per andare a prenderla all’asilo – ricorda – avevo bisogno del permesso di Eugenia. Se fosse finita in ospedale, non avrei neanche potuto assisterla». Ma fortunatamente, di lì a poco, uscì la prima rivoluzionaria sentenza, la 299/2014 firmata dall’allora presidente del tribunale per i minorenni di Roma, Melita Cavallo, che riconobbe l’adozione della madre d’intenzione nell’interesse superiore del minore. Fece subito ricorso al tribunale dei minori e iniziò un iter di quasi due anni che la vide sottoposta al giudizio di assistenti sociali, psicologi e psichiatri tramite test della personalità, incontri con la bambina con le telecamere nascoste, visite a casa, verifiche dei nostri rapporti familiari.

«Fu estenuante, dovetti riattraversare tutta la mia esistenza per dimostrare che ero degna della “patente” di madre. Nessun altro si dovrebbe trovare in questa situazione» confida.

La famiglia composta da Eugenia, Rory e Barbara rappresenta il secondo caso di stepchild adoption in Italia. Sono pioniere e privilegiate, ma altrettanto preoccupate: «Quando il governo ha tentato di bloccare la registrazione dei figli di coppie omogenitoriali, abbiamo avuto il timore di fare un passo indietro, pericoloso soprattutto per famiglie che non hanno la nostra stabilità» dichiara Romanelli.

A destare maggiore preoccupazione, infatti, non è la società che, in questi anni, si è mostrata comprensiva e aperta al cambiamento, bensì le istituzioni.

«Ci impensierisce la degenerazione della nostra classe politica che non è in grado di rappresentare la società e cavalca l’onda della paura dell’ignoto per fare propaganda. L’antidoto, nel nostro piccolo, è rendere familiari storie come la nostra per difendere la libertà di amare e favorire un dibattito sul vantaggio che la scienza può offrire per contribuire alla piena realizzazione di un individuo, indistintamente dall’orientamento sessuale» chiosano, mentre accennano un sorriso ricordando il momento in cui la piccola Barbara ha scoperto che Giorgia Meloni non è la cantante del tormentone Io sono Giorgia (remix del discorso tenuto a Roma nel 2019 ndr), bensì il capo del governo italiano che punta il dito contro le famiglie come la sua, inspiegabilmente.

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