Aveva il mondo in mano. Con i tuffi e i servizi scagliati ai duecento all’ora, un alieno di 17 anni di nome Boris Becker era atterrato sul campo centrale di Wimbledon facendo sbiadire in un lampo il resto della concorrenza. «Non appena quel ragazzo troverà il modo di tenere in campo le sue bordate, saranno dolori per tutti».

Lo sosteneva il geniale John McEnroe, fino ad allora custode del tennis nel tempio londinese, e la sua profezia si sarebbe avverata nel 1985, con il primo trionfo di Becker nello Slam dell’immortalità tennistica. Bum Bum, come lo chiamavano in patria, ha trascinato il tennis nell’era contemporanea, quella della potenza combinata alla tecnica, un passaggio repentino dal bianco e nero al technicolor.

A fine carriera, neanche troppo lunga, il campione tedesco aveva accumulato – o meglio, incassato – non solo tre titoli ai Championships, due Australian Open, uno Us Open e la prima posizione mondiale ma l’equivalente rivalutato di 120 milioni di dollari tra montepremi e sponsorizzazioni. Una montagna di denaro, una fama planetaria, porte spalancate dappertutto: idolo delle folle in Germania, vent’anni fa Boris Becker era una superstar poco più che trentenne appena pensionata, dal carisma che – termine beffardo da usare oggi - catturava.

Qualcuno presagiva per lui un futuro da capitano di coppa Davis, macché, da imprenditore di successo, e magari pure da leader politico o cancelliere: il suo vecchio manager, il magnate Ion Tiriac – giocatore medio, poi banchiere miliardario in dollari – pareva incline a diventare il suo mentore anche una volta abbandonata la racchetta.

Ma la storia è andata in un’altra maniera. La sicurezza nel rispondere vincente di rovescio o la bravura impavida nel chiudere nell’angolo volée impossibili, Becker non le ha sapute trasmutare nella vita senza scarpe da tennis. Anzi. Chiuso un primo matrimonio con una attrice di colore, Barbara Feltus, scelta che ai tempi (trent’anni fa) aveva creato malumori in una parte dell’opinione pubblica nazionale, gli è toccato pagare milioni per il divorzio e il mantenimento dei due figli. Che sono diventati tre quando è stato costretto ad ammettere una serata peccaminosa con una modella in un celebre ristorante londinese di sushi; quattro dopo il secondo matrimonio, pure quello finito a carte bollate.

La seconda vita

Boris Becker e Novak Djokovic (Copyright 2016 The Associated Press)

Frattanto, la sua seconda vita stentava ad avviare i motori. Una partecipazione societaria in una azienda di telai, ospitate televisive a gettone alla BBC, l’amore non retribuito per il poker e sì, tre anni da coach aggiunto di Novak Djokovic, una carica fugace da responsabile del tennis maschile per la Deutscher Tennis Bund (la federazione) e una nomina, che ora suona grottesca, nell’organo di consulto economico del Bayern di Monaco.

Su un binario parallelo, i doppi falli si accumulavano: una prima condanna per evasione fiscale nel 2002, che il giudice del 2022 gli ha ricordato come «un campanello d’allarme che lei ha deciso di non ascoltare, nonostante le fosse stata concessa la sospensione condizionale».

Un pasticciaccio in un resort a Marbella, con un buco di qualche milione lasciato ad arrostire sotto il sole. Fino alla crepa definitiva nel vascello, l’accusa di frode fiscale a Londra, la sua terza casa dopo il paesiello natio di Leimen e la residenza di comodo nel Principato di Monaco - perché già allora, mica solo ora i grandi dello sport cercavano rendersi immuni dall’agenzia delle entrate.

Un processo per fallimento iniziato nel 2017 che ha accertato quanto segue: il signor Becker ha occultato al fisco britannico due milioni e mezzo di sterline tra liquidità e asset, ha sempre negato gli addebiti «mostrando di non aver maturato alcun senso di colpa e anzi, cercando di scaricare responsabilità sugli altri» ed è colpevole di quattro capi d’accusa.

La giuria lo ha assolto per altre venti ipotesi di reato, tra cui quelle di aver nascosto i suoi trofei più prestigiosi per evitare fossero messi all’asta. Il suo legale ha provato a sostenere la tesi del campione in buona fede e mal consigliato, consapevole di essere finito sul lastrico «dopo divorzi onerosi e mancati guadagni una volta terminata la vita sportiva».

Niente da fare: trenta mesi di reclusione nel carcere di Southwark. Becker, segnato da cinquantaquattro anni di vita dalle stalle alle stelle e ritorno - e pure da mesti interventi di lifting facciale - ha ascoltato la sentenza indossando una cravatta con i colori verde-viola del club di Wimbledon, quello che soleva chiamare «il mio giardino». Ci ha giocato sette finali ed è socio (chissà se ancora d’onore) del circolo più esclusivo al mondo.

A inizio anno, era pronto il contratto per diventare il supercoach di Jannik Sinner: chissà, forse pensava di cavarsela anche stavolta. Sotto i due anni di condanna, sarebbe scattata la condizionale e invece no, dovrà espiare in cella metà della sanzione. Scatta il Serving time, ironizzano gli inglesi. Perché da loro, guarda il caso, significa due cose che più diverse non potrebbero essere e che Becker è riuscito nell’impresa di intestarsi parimenti: tirare una palla di servizio e finire in galera.

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