Nel gennaio del 2014 diventò a 19 anni il più giovane della storia a segnare 4 gol in una partita di Serie A. Era al Sassuolo, per metà di proprietà della Juve, aveva il destino segnato. Invece è ancora là. Una scelta così rara da spingere ad accusarlo di scarsa ambizione e poco carattere, pur di spiegare l’inspiegabile: un talento cristallino senza il mal di pancia per andarsene dalla periferia dell’impero
La domanda può porsela chiunque, anzi dovrebbe porsela ognuno. «Did you exchange a walk on part in a war for a lead role in a cage?», faresti il cambio tra un ruolo di comparsa in una guerra e quello da protagonista in una gabbia? È Wish you were here, ha cinquant’anni – i Pink Floyd iniziarono a registrare l’album negli studi di Abbey Road proprio nel gennaio 1975 – e a prescindere dalla genesi, dalla figura a cui è dedicata e dall’esegesi del testo, mette il dubbio: sempre.
La domanda è quella e la risposta, se la scelta è libera, è comunque quella giusta, anche se un certo spirito del tempo invita a pensare che solo puntare al massimo sia una soluzione accettabile e degna.
La rivelazione
Era il gennaio del 2014, quando in una serata nebbiosa e fredda, decisamente padana, il Milan di Allegri scese a Reggio Emilia per affrontare per la prima volta nella sua storia il Sassuolo, si portò sullo 0-2 con le grandi firme di Robinho e Balotelli, ma in una partita dal pronostico scontato nacque nell’immaginario collettivo la stella di Domenico Berardi: uno, due, tre, quattro gol in poco più di mezz’ora.
Diventò il più giovane calciatore italiano a segnare un poker in una sola partita. Aveva 19 anni, qualche mese prima ne avevano già parlato tutti quando di reti ne aveva segnate tre alla Sampdoria. Il suo cartellino era già per metà della Juventus – esistevano le comproprietà, allora, il destino era segnato.
È ancora lì, Domenico Berardi, al Sassuolo, ma in Serie B, quella stessa B nella quale aveva esordito fra i professionisti nel 2012, sul campo del Cesena, agli albori di una cavalcata memorabile. Eccolo, uno che ha preferito il lead role in a cage.
Uno che in una dozzina d’anni ha dribblato tutti: gli insider e i capiscer, gli addetti ai lavori e gli appassionati, gli esperti di mercato e quelli bravissimi a chiacchiere, perché nessuno, letteralmente nessuno, avrebbe potuto immaginarlo nel 2025 ancora e sempre al Sassuolo, provinciale sui generis, con addosso la maglia neroverde sulla quale è cambiato solamente il numero, passato dal 25 originario al 10 che lo caratterizza da un po’.
Le obiezioni
Le presenze sono diventate quasi quattrocento, i gol quasi centocinquanta, gli assist oltre cento, leggenda incontrastata di un luogo alla periferia dell’impero, e in questo senso coloro che non ne hanno capito le scelte lo hanno accusato di tutto, pur di spiegare l’inspiegabile, ovvero che un talento cristallino (al quale manca davvero poco, a livello calcistico) non si sia mai inventato il classico mal di pancia per andarsene: scarsa ambizione, paura di mostrarsi in un contesto diverso, poco carattere.
Oddio, in verità una volta il muso lo ha messo pure Berardi, era la fine di agosto del 2023: avrebbe davvero voluto andare alla Juventus, allora, ma l’esoso Sassuolo pose alcuni paletti che a Torino non superarono – una valutazione ritenuta esagerata e un ultimatum – e così non se ne fece niente.
Risultato? Un autoammutinamento che durò giusto un paio di settimane di allenamenti separati, salvo riconciliazione a mercato finito. Tutto qui, ed è forse stata l’unica volta nella quale altri non gli hanno consentito di cambiare («did they get you trade cold comfort for change?»), quasi ci fosse ancora il vincolo, antico retaggio di un calcio che non esiste più.
Anche per questo Domenico Berardi sembra una figura anni Ottanta. Una bandiera – lo dicono i numeri, non è retorica – laddove il termine non ha quasi più senso, uno che sta bene in provincia, uno che ha fatto in tempo a essere una comproprietà e a non diventare un meme nell’era dei social (che utilizza con parsimonia), uno che viene liberato per le interviste una volta ogni due anni – chi può dire di saper riconoscere la sua voce? – e non se ne fa affatto un problema, perché prima, quando l’irruenza giovanile lo metteva in difficoltà (ma certe espulsioni e colpi di testa, ora, sono quasi un ricordo) era il modo del Sassuolo per tutelarlo, mentre ora, potendo, evita volentieri anche lui.
Perché non se n’è mai andato
Uno che a Modena ha trovato moglie, si è creato una famiglia, può andare al ristorante senza subire gli eccessi della notorietà, anche se poi mica è tutto rosa e fiori, e al termine di un derby con il Modena, nel 2022, un tifoso lo insultò sino a farsi rincorrere fuori dallo stadio Braglia. Ma soprattutto è uno a cui piace giocare, e giocare sempre, senza essere discusso.
Tipo al campetto, perché poi è al campetto che ha iniziato, è in un campetto di calcio a 5 che lo hanno scoperto ed è nella logica del campetto che si trova la verità, anche quella di alcuni professionisti: giocare per il gusto, dove l’eterodossia è voler essere il primo fra pari, non uno da rotazioni, ed esserne consapevole e compiaciuto.
Eccola, la verità, o forse qualcosa che vi si avvicina. La verità è anche il titolo di un brano di Brunori Sas, Dario Brunori, cosentino come Berardi – tirrenico l’artista, dell’entroterra ionico il calciatore – i cui versi iniziali sembrano raccontarne l’approccio, quello che parte per scalare le montagne, ma poi si ferma al primo ristorante e non ci pensa più.
Dicono sia scarsa ambizione, magari è semplicemente la cosa giusta, anche perché poi a riguardarla oggi la sua carriera registra 122 gol in Serie A, che forse gli sarebbero stati impossibili in altre circostanze, e un Europeo vinto nel 2021 da protagonista con la maglia della Nazionale di Roberto Mancini, con 6 presenze su 7, tre delle quali da titolare, un paio di assist e il primo rigore a segno nella sequenza che a Wembley contro l’Inghilterra consentì all’Italia di sollevare il trofeo più imprevisto.
E allora ne è probabilmente valsa la pena, e anche questa parte di carriera in B, dove aveva giocato imberbe e che oggi lo ospita sapendo che è di un’altra categoria, trova un senso più profondo, agevolata sicuramente dall’infortunio dello scorso marzo – si ruppe il tendine d’Achille della gamba destra – e dall’assenza delle sirene di mercato estive, forse per la prima volta in carriera.
Domani, chissà, forse dal ristorante Sassuolo uscirà per davvero, ma a trentun’anni è un’altra cosa: la brillante promessa non rischia di bruciarsi, non essendo promessa ormai, e nemmeno chiuderà come venerato maestro, ma le scelte che ha fatto lo rendono comunque qualcosa di differente, capace di travalicare il destino di tutti coloro che, inevitabilmente, finiscono nella seconda categoria della celebre tripartizione arbasiniana.
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