La versione live-action del gioiello di casa Disney escogita un pretesto per andare oltre la fiaba filmata nel 1937 «sessista e datata», parole dell’attrice Rachel Zegler. Ha tutta l’aria di essere un flop destinato a restare tra gli ultimi esemplari di una stagione archiviata. Ma dopo aver coperto di frizzi e lazzi la stagione di Hollywood nel nome del politically correct, è già evidente che ci mancheranno perfino queste pallide trasgressioni
Abbiamo coperto di frizzi e lazzi il politically correct, la nuova stagione di Hollywood che prescriveva la dottrina dell’inclusione di etnia e di genere e lo sdoganamento (finalmente, ma anche ossessivamente) dell’omosessualità, questa grandiosa foglia di fico della supremazia bianca e della normativa sessuale che non cambiava le gerarchie dominanti.
Gente, rimpiangeremo la correttezza politica oggi liquidata come woke. Prendiamo il caso di Biancaneve, rivisitazione Disney in live-action – cioè con attori veri – del gioiello di casa del 1937, Biancaneve e i sette nani, regia di Marc Webb, in sala da noi dal 20 marzo. La nuova Biancaneve è Rachel Zegler, 23 anni, la Maria di West Side Story. È di origini colombiane, non ha la pelle candida come la neve come prevedevano i Fratelli Grimm ma chissenefrega, casa Disney escogita un diverso pretesto per il nome, e francamente ci sta. Il punto è che Snow White diventa un’eroina della resistenza, una capopopolo contro il dispotismo. E a darle il bacio provvidenziale non è il Prince Charming, il Principe Azzurro, ma un dissidente dei boschi, un brigante ladro e idealista alla Robin Hood. Sull’operazione Disney ha investito qualcosa come 270 milioni di dollari, secondo Forbes.
La Casa del Topo non deve avere le idee molto chiare sulla democrazia, e si capisce da come ha votato l’America. C’è una rivolta di popolo che metterà sul trono Biancaneve, monarca costituzionale – chiamiamola così – al posto della matrigna-dittatrice Grimilde (quella di «specchio delle mie brame»), ma in forza di una condiscendenza che è quella dei feudatari avveduti verso i servi della gleba. Basta chiamarli per nome, ricordarli bambini, e stanno con te.
Siamo contenti che Zegler, in armonia coi tempi, abbia definito «sessista e datata» la fiaba, e che abbia accusato di stalking l’originario Principe Azzurro del bacio salvifico. Ma su di lei pende il capestro, agli occhi dell’Amministrazione in carica, di un post su X che recita: «E ricordate sempre, free Palestina!». Esternazione che la colloca, automaticamente, nel branco degli studenti sotto processo per “antisemitismo” e delle Università “permissive” – come la Columbia – sotto schiaffo. È ironico che la Regina Cattiva, l’attrice Gal Dadot, da israeliana osservante abbia preso pubblicamente le parti di Netanyahu sulla carneficina di Gaza. Geopolitica conflittuale trasferita su schermo, non è promozione? Pare di no.
L’uniforme artificiosa del politically correct si sgretola sui dettagli, e come si sa il diavolo è là. Gli attori “piccoli”, come il Peter Dinklage de Il Trono di Spade, Cyrano, e Tre manifesti a Ebbing, Missouri, come Choon Than e come Blake Johnson, hanno polemizzato duramente, e a ragione, con la scelta di attori di statura “normale”, ricreati in CGI, per dare il volto ai sette nani: «Ci hanno privato di una delle poche opportunità di lavoro che abbiamo». Qualcuno parla già di un flop prenotato. Eppure, credeteci o no, è destinato a restare tra gli ultimi esemplari, tra gli ultimi fuochi, di una stagione archiviata.
Sotto il tallone di ferro del Nuovo Impero a stelle e strisce rimpiangeremo anche queste pallide trasgressioni alle fiabe sessiste, al deprecato politically correct. Niente più favole d’ora in avanti, rivisitate o meno: solo la distopia – in una versione che George Orwell non aveva la forza di immaginare – avrà diritto di cittadinanza.
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