Preparatevi, non riuscirete a sottrarvi. Non riuscirete a sottrarvi alla valanga di saggi, edizioni più o meno critiche, biografie, lecturae Dantis, celebrazioni, esaltazioni, restauri e inaugurazioni che arriveranno con l’anno centenario della morte del divino poeta. Ogni città vorrà la propria, perché Dante è come Garibaldi e non c’è borgo, per quanto remoto, che non possa vantare un piccolo addentellato dantesco, vuoi perché visitato dal Sommo nelle peregrinazioni dell’esilio, vuoi perché citato in qualche luogo recondito della Commedia.

Del resto, non è cosa nuova: quando Benedetto Croce era ministro dell’Istruzione dell’ultimo governo Giolitti stava arrivando il sesto centenario, 1921, e il filosofo si fece parecchi nemici lesinando sui fondi per le celebrazioni dantesche che gli piovevano addosso da tutte le parti. Io stesso – si parva licet – ricordo di essere stato deportato, bambino appena scolarizzato, in piazza Santa Croce a Firenze a sorbirmi, nell’anno 1966 (centenario della nascita, allora), per una mattinata intera concioni in lode di Dante di cui non capivo un’acca.

Intervengo, dunque, per fatto personale. Ma chi pensa che questi riti celebrativi servano a poco già nel caso di autori poco conosciuti, figuriamoci quando riguardano autori sui quali sono state scritte intere biblioteche, trattandosi di Dante non può vendicarsi sminuendo il celebrando.

Se non sopportate Foscolo potete sempre appellarvi alla stroncatura feroce che ne fece Gadda, ma di Dante, obiettivamente, non si può negare la grandezza. L’unica cosa che si può fare, allora, è ricordare che non sempre siamo stati immersi nel culto di Dante oggi imperante, e che per secoli è stato non solo possibile metterne in dubbio la grandezza, ma addirittura parlarne apertamente male.

Il derby con Petrarca

Perché sarà anche vero che Dante ha fatto l’Italia e forse anche gli italiani, ma ci ha messo, a spanne, cinque secoli. Nel derby letterario nazionale, Petrarca contro Dante, per mezzo millennio Petrarca è stato la Juventus e Dante l’Inter: bravo, ma non vinceva mai. Solo con il romanticismo la situazione si è rovesciata.

Passati i primi decenni dopo la morte del poeta, nei quali fiorivano i commenti e le letture entusiastiche, sono cominciate ad arrivare le remore, le cautele, le censure. Gli umanisti del Quattrocento non gli perdonavano di aver scritto in volgare e non in latino. Nel Cinquecento Dante appare duro, grave, contorto. Perfino la lode che adesso tutti gli fanno, quella di avere creato la nostra lingua, gli viene ritirata. Pietro Bembo gli rimprovera di aver usato parole immonde, brutte e dure. Monsignor della Casa, l’autore del Galateo, non lo avrebbe invitato a cena, nel timore che gli scappassero di bocca parole «disoneste e sconce, e lorde, vili, rozze, immonde».

Come negare, d’altra parte, che nella Commedia ci siano “puttana” “rogna” “merdoso”, vocaboli da non usare nei salotti?

Autore oscuro

A parte la lingua, c’era un altro problema non da poco. Non si capiva che diavolo di opera fosse il poema sacro. Si era appena riscoperto il trattato di Aristotele sulla Poetica, o almeno la prima parte, quella sulla tragedia, mentre quella sulla commedia è perduta, come sa chi ha letto Il nome della rosa.

Ora, la Divina Commedia non è una tragedia (infatti inizia male e finisce bene), ma non è neppure una commedia (c’è poco da ridere). Potrebbe sembrare un poema, ma è troppo diversa da Iliade, Odissea ed Eneide. Non c’è un’azione unitaria che la strutturi; non ci sono personaggi né azioni, se non uno scendere per le balze dell’inferno e un salire per i gradoni del purgatorio. In compenso ci sono interminabili disquisizioni scientifico-filosofiche.

Per secoli, Dante è stato ritenuto oscuro. Troppi riferimenti ad avvenimenti della storia fiorentina, a famiglie, personaggi, eventi comprensibili solo con un esorbitante commento. La sua fede cristiana da uomo del medioevo, quando comincia ad arrivare l’illuminismo gli crea parecchi problemi. Uno dei precursori dei lumi, Pierre Bayle, gli fa le bucce in un articolo del suo Dizionario Storico-Critico, praticamente ignorando la poesia e concentrandosi sugli errori storici e dottrinari.

Voltaire lo attacca tutte le volte che gli è possibile, mescolando le critiche all’uomo di fede con quelle al letterato. Scrive che tutti celebrano Dante perché nessuno lo legge più, essendo interessante al massimo per i toscani. Trova il poeta bizzarro, strano, contorto. Gli rimprovera ancora una volta di non aver fatto né un poema epico né un dramma. La Divina Commedia, conclude, è un pasticcio.

In Italia, nello stesso periodo, il letterato Saverio Bettinelli finge che a condannare Dante sia lo stesso Virgilio, che lo disconosce come discepolo e gli rimprovera l’erudizione, l’accumulo di ciarpame scolastico, e, bontà sua, afferma che eliminando l’illeggibile si potrebbero salvare, sui quattordicimila che la compongono, sì e no un migliaio di versi.

La svolta del romanticismo

Con il romanticismo, ma per merito più dei tedeschi che degli italiani, la musica cambia completamente. L’accusa di essere un barbaro che scrive in tempi barbari si trasforma nella più grande delle lodi. Dante è un poeta primigenio, come Omero. In pochi decenni, Dante è pronto per diventare il padre della patria che ne farà De Sanctis. Il nazionalismo risorgimentale ci mette del suo, facendo di Dante un araldo della riscossa nazionale, oltre che una gloria che l’Italia può metter a pari di Omero nell’antichità e di Shakespeare nei tempi moderni.

Da allora, solo pochi grandi si possono permettere di dubitare della grandezza di Dante. Uno dei primi è l’autore di una delle rare opere della modernità che si possano mettere vicino alla Commedia, il Faust.

Goethe, che pure amava moltissimo l’Italia e poteva leggere Dante nell’originale, perché sapeva bene l’italiano, non dissimula la propria scarsa simpatia per il poeta fiorentino. Gli sembra che l’inferno sia abbastanza riuscito, il purgatorio noioso e il paradiso insopportabile (per forza, spiegherà poi il filosofo Schopenhauer: il mondo di qua costituisce un buon modello per il primo, ma non può esserlo certo per il terzo).

A dar fastidio a Goethe, ancora una volta, era il ruolo preponderante della religione nel poema di Dante. E questo vale per i pochi detrattori del Sommo poeta negli ultimi due secoli. L’unico che abbia osato intitolare un suo saggio Contro Dante è stato, non a caso, uno scrittore della cattolicissima Polonia, Witold Gombrowicz, il quale però, facendo finta di prendersela con la poesia di Dante, in realtà ne critica soprattutto la credenza nell’inferno.

Siccome quando scriveva Gombrowicz non era ancora stato detto che sì, l’inferno esiste ma forse è vuoto, perché Dio perdona tutti, lo scrittore polacco trova inconcepibile che si possa essere dannati a soffrire in eterno per un peccato commesso nei brevi anni della vita terrena.

Devono essere stati pensieri simili quelli che hanno spinto Friedrich Nietzsche, non a caso autore di un testo che si intitola l’Anticristo, a mettere Dante nell’elenco dei «suoi impossibili», cioè di quelli che proprio non sopportava, e a inchiodarlo a una definizione disgustosa: «Una iena che canta tra le tombe».

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