Da Alberto Sordi alle trattorie familiari di Testaccio, la pajata a Roma resta un'istituzione, sulla cresta dell'onda dopo il bando del «quinto quarto». I veterinari che sanno lavorare l'animale, però, non esistono più, così il consumo delle interiora è diminuito. Eppure non c'è niente che le assomiglia
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Un piatto non per tutti. Insieme a carbonara, amatriciana, gricia e cacio e pepe, la pajata è uno dei simboli della cucina romana, di cui rappresenta in parte pure la storia.
La preparazione però non è semplice e la ragione è anche spiegata in uno dei capolavori del cinema italiano, il film Il Marchese del Grillo del 1981, diretto da Mario Monicelli.
In una scena ambientata in una locanda si vede il Marchese, interpretato da Alberto Sordi, che ordina all’amica Olivia, ruolo impersonato da Caroline Berg, un piatto di rigatoni con la pajata. Lei non lo conosce e chiede informazioni.
«Mangia, poi ti spiego», le risponde lui. Al momento di andare, quando lei chiede cosa fare con il piatto ancora semipieno, lui le dice: «Mi avevi chiesto cos’è: è merda de vitella. Si fa con le budella».
Una battuta fulminante che racconta, già negli anni Ottanta, pregi e difetti di un piatto riemerso dall’oblio nella sua variante originale soltanto recentemente.
Le origini
La storia della pajata si lega a quella del quartiere romano di Testaccio, zona popolare della Capitale specializzata nella preparazione del «quinto quarto», che consisteva nei tagli meno pregiati e nelle interiora del bovino.
Queste parti non erano consumate dai nobili e dal clero ed erano quindi vendute a buon mercato ai popolani nella Roma papalina, dove si consumava tantissima carne: secondo una testimonianza riportata dalla storica Marina Formica, nella Capitale si mangiava «il doppio più carne e vino che consuma Napoli benché quella città sia il doppio più grande», una propensione dovuta anche all’influenza della cucina giudaico-romana.
Se la tradizione della pajata si lega a quella di un quartiere periferico come Testaccio il merito è del mattatoio, nato nel 1890 e attivo fino al 1975: qui operavano i vaccinari o scortichini, coloro che dovevano scuoiare i bovini.
«Da allevatori abbiamo conosciuto il mattatoio e posso dire che il quinto quarto è sempre stato materiale di scarto: non c’era solo la pajata, ma erano anche gli zampetti, la testa, le mammelle, la coda, la lingua e la pelle. Tutto ciò che non erano le due mezzene era il quinto quarto: una parte era edibile, l’altra no. Quando lo scortichino scuoiava l’animale metteva una cura incredibile: quello bravo era colui che non faceva i buchi nella carne o nella pelle ed estraeva le mezzene intatte. Un tempo questo rappresentava un grande vantaggio, visto che sistemi di conservazione, come ad esempio il frigorifero, sono arrivati solo più recentemente» racconta un oste e volto televisivo conosciuto come Giorgio Barchiesi, noto anche come Giorgione.
La ricetta
Da veterinario ed ex allevatore di bestiame, sa cosa c’è dietro la pajata. «Secondo me c’è molta millantazione: la pajata è un pezzo dell’intestino, detto digiuno, del vitellone di circa un metro, un metro e mezzo. All’interno si trova una sostanza lattiginosa, che però non è latte: si tratta del chimo, roba predigerita che presentava prima e dopo dei pezzetti di pagliata, da cui deriva il nome del piatto. La dimensione è ristretta e bisogna saperla tagliare bene. Per vendere tanta pajata cosa fanno? Macellano l’animale, lavano il budello, ci buttano dentro del latte, lo strisciano in modo che cagli creando una cosa simile al chimo. È però una sòla, non è vera», racconta Giorgione.
Una preparazione che impone quindi una certa pulizia per evitare che restino escrementi, che si possono percepire da quel gusto «amaretto» di fondo, come sottolinea Giorgione, e che è stata riscoperta di recente dopo gli anni di divieto.
«Tutto quello che era legato al quinto quarto, eccetto il fegato, è stato bandito per lungo tempo a causa del morbo della mucca pazza. Per questa ragione si è diffusa la pajata di agnello, che però non è la stessa cosa, ma, in questo caso, si è fatta di necessità virtù. La pajata era e resta di bovino adulto», sottolinea.
I problemi del «quinto quarto»
Una preferenza diversa, invece, è quella di Elio Mariani, cuoco di Checchino dal 1887, storica trattoria di Testaccio che ha un intero menù dedicato al quinto quarto. «Esistono diverse versioni, ma noi da trent’anni facciamo solo la pajata con il vitello da latte», racconta.
La storia di questo piatto si intreccia a quella della trattoria e della famiglia che la gestisce da più di un secolo. «Io, insieme a mio fratello Francesco e a mia sorella Marina siamo la quinta generazione che si occupa della trattoria. Avendo iniziato sin da giovane a lavorare qui, so che il quinto quarto e la pajata rappresentano una parte della storia della mia famiglia», dice Mariani.
Eppure oggi qualcosa sembra essere cambiato: «I veterinari, le persone in grado di saper fare un lavoro corretto con l’animale, non ci sono quasi più. Tanti anni fa si preparava più spesso, oggi è diventato sempre più difficile perché mancano le conoscenze e, così, anche l’utilizzo delle interiora è diminuito. Noi rappresentiamo un’eccezione ma ci sono posti e contesti, dentro ma soprattutto fuori Roma, che non sanno cosa sia la pajata», sottolinea il cuoco di Checchino.
«Rispetto a ieri oggi ci sono elementi che non vengono più cucinati. Un esempio è lo schienale, cioè il midollo della spina dorsale, che un tempo veniva preparato con burro e salvia oppure veniva fritto e che oggi non viene più preparato: dopo la macellazione, questi pezzi vengono mandati all’inceneritore. Lo stesso valeva per la pajata, ma poi si è capito che il morbo della mucca pazza colpiva il midollo spinale e non l’intestino. Per questo, però, abbiamo per lungo tempo lavorato la pajata di agnello, che però per un romano di Roma non è la stessa cosa», sottolinea Mariani.
I piatti tipici
L’abbinamento più celebre è con i rigatoni al sugo, ma si può fare anche «sulla griglia e qualche romano di Roma l’adopera anche come antipasto. La sua preparazione richiede molta pazienza: solitamente l’intestino arriva tagliato già pronto per essere cucinato, ma è sempre meglio controllare il prodotto e la sua qualità. Una volta controllato, l’intestino viene sgrassato e spellato, un processo delicato visto che ha una pelle più spessa e una più sottile, poi viene tagliato a pezzi e infine legato a ciambella, usando come filo quello che viene fuori dalla stessa pajata. Poi, dopo un’ora e mezza, due di cottura, si può servire» rimarca Mariani.
Il piatto ha un tempo di preparazione relativamente breve rispetto ad altri classici del quinto quarto. «Il più complesso di tutti è certamente la coda alla vaccinara. Rispetto alla pajata non richiede molte fasi preliminari ma poi deve cuocere per cinque ore» conclude.
Ma di cosa sa la pajata? Su questo Giorgione non ha dubbi: «Se non sai di cosa sa, è difficile da descrivere: quando rompi il budello è qualcosa di unico. Difatti, non c’è niente che le assomiglia».
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