Josip Iličić è il calciatore delle pause in gioco e dal gioco. Il trequartista dei Balcani che fa pensare al Sudamerica perché esce dalla tattica con la fantasia e poi esce dal campo con la tristezza sua e di chi vorrebbe sempre vederlo giocare. I suoi gol sono improvvisi per campi da calcio che si tatuano in quelli che li vedono realizzare: al Palermo – dove lo portò Walter Sabatini uno che ha il blink: gli basta pochissimo per capire –, alla Fiorentina e poi all’Atalanta, tre piazze diverse, tre Italie differenti, ma un solo modo di continuare ad amarlo.

Quelli come Iličić rimangono negli album della memoria perché in campo possono fare di tutto: un calciastupor. E poi se la gente lo sa che sai fare cose fuori dal normale devi farle e rifarle per sempre, ma Iličić fa cose fuori dal calcio normale perché ha un’altra musica, perché non appartiene, è cresciuto con sottrazione di infanzia e affetti – tra guerra e scomparsa del padre –, silenzi e solitudine.

Poi giocando ha rimosso, prendendosi una pausa anche dal dolore, poi il dolore è andato a cercarlo a Bergamo, nell’area dove il Covid ha stretto più forte. Dove le barriere non le potevi saltare con un sinistro a giro, dove la fila non era per entrare in campo ma delle bare, e dove il silenzio era rotto dalle sirene delle ambulanze: una colonna sonora che l’ha aperto a metà.

Andarsene

Mentre gli altri scoprivano la paura a Iličić sono tornate le paure, e la depressione: nessuna voglia di giocare, mangiare, ridere, sperare. Si è fermato, poi se ne è andato, è tornato al Maribor dove lo vide Sabatini e tutto cominciò. La carriera sembrava finita, ma Matjaž Kek – CT della Slovenia – ha pensato che due anni e mezzo di pausa potessero bastare e gli ha detto: dai, torna, ci divertiamo. E Iličić è tornato, ha segnato e ha persino sorriso.

Un gol alla Iličić nell’amichevole contro l’Armenia: stop di destro in area, sterzata sul difensore appeso al vuoto e sinistro all’incrocio dei pali. Il suo biglietto da visita per gli Europei: a trentasei anni e molte pause. I dribbling per lui sono stati i punti di sutura delle ferite, la gioia negli occhi di chi lo guarda slalomare, e tirare e segnare, e l’energia che lo rimette al mondo, mettendolo in pausa dal dolore.

Un dolore di cui non si parla, ma di cui si lascia parlare. Gigi Buffon l’ha raccontato dopo. Eppure la letteratura italiana dal 1964 ha un grande romanzo sulla depressione: Il male oscuro di Giuseppe Berto, il libro italiano che più piacque al superuomo Ernest Hemingway e che andrebbe dato ai calciatori nicciani e non. Per capire come la depressione sia un tabù basta andare all’anno prima, il 1963, quando Pasolini gira Comizi d’amore e chiede del sesso anche a un calciatore, oltre a mezza Italia sulle spiagge, Giacomo Bulgarelli, ma nessuno ha ancora chiesto della depressione, se ne parla come se non fosse dentro di noi, calciatori e non.

Tornare

Poi la gente vede piangere l’allenatore wagneriano dell’Atalanta, Giampiero Gasperini, e capisce. Lo sente raccontare del trequartista Iličić ridotto a scheletro e capisce. Un corpaccione di un metro e novanta che appassisce e smette di giocare non riuscendo più a divertirsi. Marcato e vinto dal silenzio. Ma poi la musica torna. Trentasei anni pesano nel campo, nella vita sono ancora solo un morso. E un dribbling dopo l’altro, tornano le partite e i gol e adesso anche la nazionale slovena e gli Europei. Iličić ha fatto un giro lungo, come un derviscio ha girato su sé stesso, è diventato un ricordo per i campi, poi no, ritrovando la forza per tornare ad essere il portatore di stupore.

Ha riacceso il motore e messo su la musica, quella dei gol. Lo straniero del pallone, è tornato al grande calcio. Niente più silenzi. Niente più dolore. Niente più pause dal campo. Ma un nuovo estro. Perché Iličić viene da lontano: dalla terra dei silenziosi, dei riflessivi, ma troppi pensieri per un pallone solo, un marcatore solo, una squadra sola. E allora pausa, dalla normalità. Adesso ri-gioca Iličić.

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