Come pittore, scrittore, intellettuale antifascista e attivista meridionalista, Carlo Levi è stato uno straordinario protagonista anomalo e indipendente della vita culturale e politica italiana nel ventennio fascista e negli anni del secondo Dopoguerra. In occasione dei 120 anni della sua nascita (e a circa mezzo secolo dalla sua morte) Torino, sua città natale, gli dedica un articolato programma di manifestazioni (esposizioni, conferenze, film, interventi critici e letture di testi) organizzato da varie istituzioni tra cui in particolare il Circolo dei lettori, e la Galleria d’arte moderna. Quest’ultima propone la mostra “Carlo Levi. Viaggio in Italia: luoghi e volti”, curata da Luca Beatrice e Elena Loewenthal, circa 30 dipinti che documentano al meglio due fondamentali aspetti della sua pittura e cioè i ritratti e i paesaggi.

Levi è conosciuto da tutti per il suo libro Cristo si è fermato a Eboli (che continua ad essere letto nelle scuole). La sua fama di scrittore ha messo ingiustamente in ombra la sua pittura, che è stata fin dall’inizio la sua vera vocazione. A questo proposito vale la pena precisare come stanno le cose.      

Scrittore o pittore

Nel 1946 Fortunato Bellonzi, commentando una mostra di Carlo Levi a Roma arriva a scrivere: «È cosa quasi fatale che, di fronte alla eccezionale ricchezza di valori umani della prosa di Levi, la sua pittura impallidisca anche più di quanto dovrebbe e faccia infine figura di svago. Carlo Levi non è un pittore che anche scrive, ma uno scrittore che anche dipinge».

Questo giudizio piuttosto grossolano da parte di un noto critico d’arte, che avrebbe dovuto conoscere bene il percorso di ricerca dell’artista, è conseguenza dello straordinario impatto culturale di Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato nel 1945: un successo che farà conoscere Levi al grande pubblico come scrittore, mettendo in sottordine la sua specifica primaria attività di pittore.

La questione non è quella di giudicarlo più importante come scrittore che come pittore, o viceversa, ma di precisare le priorità in ordine ai processi interni dell’elaborazione creativa. E da questo punto di vista non ci sono dubbi.

Perché il medico Carlo Levi comincia a fare il pittore all’inizio degli anni Venti; è protagonista del gruppo torinese dei Sei; partecipa alle principali manifestazioni espositive nazionali tra cui le biennali veneziane. E quando viene spedito al confino in Lucania nel 1935 è un artista professionista ormai riconosciuto.

Cristo si è fermato a Eboli

È innanzitutto attraverso la pittura (e in parte attraverso testi lirici di carattere privato) che prende forma la prima fase della sua definizione mitopoietica del mondo contadino, come si legge anche nella prefazione dell’autore a una riedizione del 1964 del romanzo: «il Cristo si è fermato a Eboli fu dapprima esperienza, pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità, per diventare infine e apertamente racconto».

Durante il confino a Grassano e ad Aliano dipinge una settantina di quadri che segnano nella sua pittura una svolta fondamentale verso un realismo espressionista con valenze liriche. Sono quadri che vengono esposti sùbito in varie occasioni suscitando un grande interesse.

Il romanzo viene invece scritto otto anni dopo a Firenze nel 1943. Significativa è la testimonianza di Manlio Cancogni che andava a trovare Levi nella casa dove era nascosto: «Levi dipingeva e scriveva contemporaneamente. Cominciò a scrivere Cristo si è fermato a Eboli a matita come se disegnasse, con un tratto ampio e agile, arrestandosi di tanto in tanto per porre mano ai pennelli e riprendendo più avanti la matita come se lo scrivere e il disegno fossero parti dello stesso discorso ininterrotto. Carlo dipingeva e intanto raccontava».

Una figura scomoda

E Natalia Ginzburg, tra i primi a leggere il romanzo, ha scritto: «Avevo avuto la sensazione, leggendolo la prima volta, che lui scrivendo non raccontasse ma dipingesse e cantasse. Questa sensazione era, io credo, giusta, ed è miracoloso come queste pagine tutte cantate e dipinte formino una realtà umana e civile che nessuno aveva mai scoperto».  In effetti moltissime sono le corrispondenze fra le immagini dei quadri dipinti anni prima e le “pagine dipinte” del romanzo: i personaggi (bambini, donne, uomini del paese come il prete e il dottore) e i paesaggi e la stessa incantata dimensione fuori dal tempo e dalla storia.

Nel Dopoguerra l’impegno politico diventa sempre più intenso e Levi (tra i primi esponenti di Giustizia e libertà e del Partito d’azione) diventa un personaggio emblematico del meridionalismo, e più precisamente di una concezione autonomista non in linea con quella ufficiale del partito comunista a cui era collegato come indipendente. Insomma, anche nella politica di sinistra era una figura scomoda: da un lato era accusato dai politici di mitizzare e estetizzare troppo la condizione arcaica della civiltà contadina, e cioè di essere troppo artista e scrittore, e dall’altro lato era criticato da buona parte del mondo della cultura perché troppo politico e contro l’avanguardia in quanto esponente della pittura neorealista.

Difficile da inquadrare

Per la complessa originalità della sua poliedrica esperienza culturale e politica, anche il Levi pittore non è facilmente inquadrabile nell’ambito dell’arte italiana di cui è stato una figura di punta in fasi diverse dagli anni Venti agli anni Cinquanta.

Nei manuali lo troviamo collocato prima, insieme al gruppo dei sei pittori di Torino, in opposizione al Novecentismo, e poi, nel Dopoguerra, tra gli esponenti del Fronte nuovo delle arti e del realismo socialista. Lo sviluppo cruciale della sua ricerca degli anni Trenta in senso espressionista, con al centro la sua straordinaria esperienza del periodo lucano, viene invece considerato praticamente solo dal punto di vista tematico.

Responsabile di questa lettura troppo contenutistica e politica è anche in parte, al di là delle sue intenzioni, l’artista stesso che ha sempre voluto esporre nelle sue successive mostre incentrate sul mondo contadino del sud (in particolare nella sala personale alla biennale del 1954) dei quadri del confino insieme a quelli più recenti caratterizzati da una visione epico-narrativa non priva di eccessive valenze retoriche.

Il risultato è che la fase a mio avviso più originale in assoluto dal punto di vista espressivo e formale – quella dell’invenzione della pittura a pennellate fluttuanti e ondeggianti – invece di essere analizzata dal punto di vista qualitativo sembra essere quasi solo un momento di passaggio non apprezzato dagli amanti del Levi dei Sei, postimpressionista e pittoricamente più gradevole, e d’altro canto giudicato troppo lirico dai fautori del realismo impegnato.

Titolino

Come pittore Levi inizia a Torino, influenzato da Casorati di cui non era propriamente un allievo. E comincia bene esponendo alla Biennale veneziane nel 1924 e 1926. I vari soggiorni a Parigi (dal 1927 al 1934) sono fondamentali per la sua maturazione: qui assimila con autonoma originalità in particolare la lezione dei Fauves e anche di Modigliani. Dal 1929 al 1931 espone con Menzio, Chessa, Paulucci, Galante e Boswell, dando vita al gruppo dei Sei sostenuto da Lionello Venturi e Edoardo Persico. Esaurita questa esperienza, Levi cambia decisamente rotta in direzione di una figurazione più realista con suggestioni che derivano da pittori come El Greco, Van Gogh, Kokoschka e Soutine ma senza eccessive angosce deformanti.

Nei suoi ritratti, nelle nature morte e negli aridi e scavati paesaggi lucani, raggiunge un singolare equilibrio fra tensione espressionista e calma visione distaccata. La pennellata “ondosa”, (con morbide tonalità brune, ocra, verdi e blu-grigie) è utilizzata per trasmettere nella materia pittorica e nelle forme che da essa emergono una vibrante intensità vitale. 

Dopo la guerra il linguaggio di Levi si sviluppa progressivamente sotto il segno dell’impegno civile e politico con composizioni anche visionarie sulle tragedie della guerra, e poi soprattutto con quadri di carattere fortemente drammatico sulla condizione dei contadini in Calabria e in Sicilia. Il punto culminante e finale di questa epica figurazione è Lucania’61, la vastissima scena corale lunga 18 metri, realizzata per il padiglione della Lucania a Italia ’61 (in occasione del Centenario dell’Unità d’Italia)  una “allegoria realista”  scandita in vari episodi  e dedicata alla vita del poeta Rocco Scotellaro. L’opera si trova ora, insieme a molti altri dipinti di Levi, nel museo di Palazzo Lanfranchi a Matera.

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