Ci sono luoghi frequentati da un’umanità eterogenea e variegata, individui che – per stile di vita e ruolo sociale – normalmente condividerebbero, al massimo, il rosso di un semaforo. Posti in cui vige una inquietante, quasi mistica, extraterritorialità.

Zona Franca si propone di raccontare la geografia di questi luoghi e la storia delle persone che li hanno frequentati.

Novembre 1979, Roma.

Citofono. Martedì, 13 e 30. Neanche rispondo. Prendo il borsone, saluto i miei ed esco di casa. Scale. Tra scale e ascensore scelgo come al solito le scale. Quattro piani più l’ultima rampa, quella che porta al corridoio dei garage. Scendo veloce, due gradini alla volta. Paolo apre sportelli e bagagliaio della macchina, io lucchetto e serranda del garage. Cominciamo a caricare il materiale in auto.

– Mani in alto! Faccia al muro!

Alzo le mani. Ruoto la testa lentamente. Una Beretta M51 mi fissa da sinistra. Due. Tre. Anche una mitraglietta M12. Chi cazzo sono? Brigatisti? Vogliono sequestrarci? Ma i miei non sono ricchi. Forse vogliono sequestrare Paolo. Il padre è un giudice, la mamma un avvocato. Mi spingono violentemente contro il muro. Un anfibio mi distanzia i piedi. Mi perquisiscono.

– Giratevi! – ci dicono.

Mai provata tanta gioia nel vedere un poliziotto. Due. Tre. Saranno almeno una decina, equamente divisi tra me e Paolo. Anche lui viene perquisito e tenuto contro il muro dall’altro lato del garage. I poliziotti cominciano un’ispezione meticolosa. Scaffali, armadietti, scatoloni. Aprono tutto.

– … è illegale quello che state facendo. Un mandato ce l’avete? – protesta Paolo.

Non rispondono neanche.

– Ma insomma, che succede? Che volete? – aggiungo io.

– Eccoli. Li abbiamo trovati – dice uno di loro.

La Beretta e l’M12 continuano a fissarci.

– Caschi e giubbotti antiproiettile. Le armi dove le tenete?

Bussano come matti alle pareti per cercare un doppiofondo. Siamo alla fine degli anni Settanta. Gli anni di piombo. Quelli delle stragi e degli attentati. In seguito sarei venuto a sapere che una persona del palazzo aveva chiamato la polizia dicendo di aver visto, più volte nell’ultimo mese, due giovani caricare in una macchina giubbotti antiproiettile.

– Ma quelli sono paraspalle e caschi da football americano. Noi siamo giocatori. A luglio ci sarà il primo campionato italiano.

Finalmente la Beretta e l’M12 si abbassano.

– E dov’è che si giocherebbe, questo campionato?

Via di Montiolo 1, Castel Giorgio (TR), Stadio Vince Lombardi.

Un paesino di duemila abitanti che diventa in pochi mesi sede del primo campionato italiano di football americano e capitale europea di un nuovo sport, quasi sconosciuto. Uno stadio costruito a tempo di record in conformità ai rigorosi standard previsti dalla Nfl americana (National Football League), con porte arrivate direttamente dal Wisconsin, dono della squadra dei Green Bay Packers.

Le ragazzine del paese trasformate in perfette cheerleaders da un famoso coreografo. Le telecamere della Rai dislocate a bordo campo per riprendere l’evento. Ragazzi di destra e di sinistra insolitamente uniti da mesi di allenamenti e partite che li costringono a mettere da parte le rivalità politiche.

Sembra una storia inventata, ma è successo veramente.

1969, San Vito dei Normanni (BR).

Ho dei ricordi bellissimi delle vacanze in Puglia, a casa dei nonni paterni: ulivi secolari su cui arrampicarsi, bagni al mare, orecchiette, pasticciotti con la crema… e una specie di astronave, misteriosamente atterrata nella campagna pugliese. Per i miei occhi di bambino un grande meraviglioso luna park a cui, però, non posso avere accesso.

Si tratta di una base Usa, creata allo scopo di intercettare comunicazioni (telefoniche, radio e telegrafiche). Costruita alla fine degli anni Cinquanta, è come un gigantesco orecchio puntato verso est, al cui interno vivono e lavorano centinaia di soldati americani (tra cui radiotelegrafisti, crittografi e traduttori) con le loro famiglie.

E poi c’è mio nonno. Cattolico fervente, alle sei di ogni pomeriggio si mette davanti a casa a recitare il rosario, affiancato da parenti, amici e spesso anche da passanti. Io cerco di defilarmi ma mi ritrovo quasi sempre precettato.

Tra i clienti della sartoria in cui zio Angelo ha trasformato una delle stanze della casa di famiglia ci sono molti americani della base. Quello che più mi colpisce è Castro, un marine alto due metri che – al contrario di me – partecipa con devozione a quei momenti di preghiera. In seguito alle mie insistenze, un giorno Castro ci porta a visitare la base militare. Finalmente posso entrare in quel luogo inaccessibile e agognato.

Ospedale, scuola, biblioteca, supermarket, ristorante, bar, piscina, bowling… e perfino un campo da football americano.

Osservo incantato alcuni ragazzi della base giocare con magliette numerate fino al 99. Una rivoluzione per me che sono abituato agli 11 del calcio.

Aprile 1978, Roma.

Citofono. Il mio amico Marcello Mentini mi urla di scendere subito: Bruno Beneck ci ha convocato nel suo ufficio.

Bruno Beneck, il presidente della Lega Italiana Baseball, membro del Board della International Baseball Federation nonché della giunta del Coni, giornalista, regista di vari programmi Rai tra cui La Domenica Sportiva che, proprio nella edizione da lui diretta, introduce l’uso della moviola. Bruno Beneck. Già sono preoccupato per l’esame della settimana successiva, mi mancano solo le prese in giro di Mentini. Lui insiste. Mi giura che non si tratta di uno scherzo.

Scendo.

– Non ci credo manco io, ma è tutto vero! Beneck ci aspetta nel suo ufficio!

Roma di fine anni Settanta ci osserva poco più che ventenni camminare, uno scettico, l’altro entusiasta, verso quel nostro decisivo incontro. Soltanto pochi metri ci dividono ormai dall’edificio in cui il mio amico Mentini continua a sostenere che Beneck ci abbia dato appuntamento. Qualche settimana prima gli avevamo spedito una lettera.

Egregio signor presidente, c’era scritto, siamo un nutrito gruppo di ragazzi appassionati di football americano che, qui a Roma, si dedica alla pratica di questo nuovo sport. Ci rivolgiamo a lei, in quanto promotore del football americano in Italia, per sapere se ci può in qualche modo supportare, considerato che – al momento – disponiamo di scarsa attrezzatura e ci alleniamo in un parco cittadino.

Nel 1977 Beneck ha organizzato a Viareggio uno dei primi tornei di football americano in Italia, coinvolgendo le rappresentative di quattro basi militari Usa. Non potrebbe esserci destinatario migliore per la nostra missiva, anche se non speriamo certo in una sua risposta… per noi è come scrivere una lettera a Babbo Natale.

– Buongiorno, siamo Mentini e Loprencipe. Abbiamo appuntamento con Bruno Beneck – dice Marcello al vigilante fuori dall’edificio.

– Prego. Sesto piano – risponde quello.

Babbo Natale ci sta aspettando!

Quando l’ascensore si apre ci troviamo davanti Marina, la segretaria di Beneck, che – sorridente – ci accompagna nel suo ufficio.

Mentre percorriamo il corridoio mi sento come uno studente che si appresta ad affrontare, impreparato, l’esame più difficile del suo corso di laurea. Nella lettera abbiamo mentito. Il nutrito gruppo è in realtà costituito solo da me, Marcello e un paio di altri amici che, in compagnia di una palla ovale, nel fine settimana andiamo a giocare a Villa Glori.

Beneck è impegnato in una conversazione telefonica ma ci fa un ampio gesto di saluto e ci indica le due sedie davanti alla sua scrivania.

– Benvenuti ragazzi! … Allora, chi è il quarterback della squadra? Perché, naturalmente, è il quarterback quello che deve parlare… Il mio amico indica me.

– Prima di tutto… quanti siete? Una quarantina?

– Più o meno… rispondo.

Se di fronte a me avessi trovato qualcuno meno entusiasta di lui, lo avrei ringraziato dell’appuntamento spiegandogli che non eravamo ancora pronti e che sarebbe stato meglio rivedersi quando (e se mai) fossimo riusciti a raggiungere quel numero.

Beneck, però, è così travolgente da precludermi qualsiasi scappatoia. Alza il telefono e digita un interno. Sentiamo gli squilli in una delle stanze a fianco.

– Maaax! Vieni subito nel mio ufficio! – urla.

Con quel tono di voce, il telefono avrebbe potuto anche non usarlo. Max Ceccotti, italoamericano del New Jersey, fidatissimo collaboratore di Beneck, compare sulla porta trafelato. Il capo gli chiede l’elenco delle scuole americane a Roma. In pochi minuti il sollecito Max glielo consegna e Beneck inizia una incalzante serie di telefonate.

La sua impareggiabile dialettica gli permette ogni volta di fugare rapidamente eventuali dubbi e perplessità degli interlocutori. Un quarto d’ora dopo riappoggia la cornetta e ci guarda soddisfatto. Abbiamo un campo a disposizione (presso l’American Overseas School of Rome) e personale competente che ci assisterà negli allenamenti (il capo dei servizi di sicurezza dell’Ambasciata Americana e almeno un paio di marines). Quanto alle attrezzature… nel giro di qualche mese arriveranno pure quelle.

– Adesso potete andare ma, mi raccomando, alla scuola americana vi aspettano dopodomani alle 14 e 30 per il primo allentamento. Siate puntuali!

Dopodomani.

Alle 14 e 30.

Ora sono le 16.

Abbiamo 46 ore e 30 minuti per trovare una quarantina di persone disposte a venire ad allenarsi sulla Cassia.

Usciamo. Trincerandosi dietro un’improbabile serie di impegni familiari, Marcello mi fa capire che gli altri 38 dovrò trovarli io. Non me la sento di tradire le aspettative di una persona che, in pochi minuti, ci (mi?) ha messo nelle condizioni di realizzare un sogno.

Tornato a casa, agendina alla mano, comincio una serie di telefonate a raffica. Convincere gli amici non sarà un’impresa facile. Senza parlare di football americano – quasi nessuno lo conosce – dico a tutti di presentarsi all’appuntamento con scarpini e divisa da calcetto… sto organizzando un evento eccezionale.

Il giorno dell’allenamento, mi presento all’Overseas School almeno un’ora prima. Alle quattordici e dieci arrivano gli americani. Dei miei futuri compagni di squadra ancora nessuna traccia. Per un paio di minuti considero l’idea di un’ignominiosa fuga… poi, per fortuna, qualcuno comincia ad arrivare. Due. Tre. Cinque. I primi li abbraccio calorosamente. Dieci. Quindici. Venti. Li saluto con entusiasmo. Superata quota trenta, mi limito a dare indicazioni tecniche su possibilità di parcheggio e ubicazione spogliatoi.

Alle 14 e 35 – contro ogni previsione – siamo in quaranta.

SIAMO. IN. QUARANTA.

Quando, sulle orme dei palestratissimi marines americani, cominciamo una corsetta di riscaldamento, sono talmente emozionato che quasi non riesco a stare in piedi. Gli allenamenti vanno avanti per qualche settimana ma poi, purtroppo, il fatto che le istituzioni americane in Italia siano possibili bersagli di attentati terroristici, ci lascia orfani della nostra prima sede.

Dobbiamo trovare un’alternativa. Dopo una settimana di disperate e inutili ricerche un campo di terra del Circolo Inail di Tor di Quinto, ostico e dissestato come i capelli di un rasta, sostituisce il soffice pratino dell’American Overseas School of Rome, rasato a perfezione come i capelli dei marines.

Riprendiamo ad allenarci. Senza uno scopo preciso, solo per il gusto di giocare. Fino a che uno scopo ce lo trova Bruno Beneck.

Il presidente, non pago di aver fatto gareggiare tra di loro le squadre delle basi Usa in Italia, ora vuole organizzare il primo campionato italiano di football americano.

IL. PRIMO. CAMPIONATO. ITALIANO. DI. FOOTBALL. AMERICANO.

Rhinos a Milano, Frogs a Legnano, Gladiatori a Roma… in effetti alcune squadre già esistevano… ma si erano fino ad allora limitate a disputare partite amichevoli o piccoli tornei, senza avere un grande seguito di pubblico.

L’idea di Beneck è di dar vita a un evento senza precedenti che contribuisca, in maniera decisiva, alla diffusione di questo sport in Italia.

Marzo 1980

L’inizio del campionato si avvicina. Ormai mancano solo pochi mesi. Per aumentare il numero di giocatori decidiamo di accogliere tra di noi anche dei rugbisti.

Beneck fa venire appositamente dalla base americana di Napoli degli arbitri professionisti che ci seguiranno per un giorno nei nostri allentamenti.

Mentre proviamo gli schemi, uno dei rugbisti comincia a bestemmiare e si avventa contro due avversari che – durante il gioco – hanno cercato di fermarlo. Scoppia una rissa che coinvolge la metà dei giocatori. Gli arbitri fischiano. Beneck urla. I giocatori continuano a picchiarsi.

Tra rugby e football americano ci sono poche ma sostanziali differenze, la più importante delle quali è che, nel rugby, un giocatore può essere contrastato solo nel momento in cui è in possesso di palla. Nel football, invece, anche in assenza di palla si può essere ostacolati.

Con l’arrivo dei rugbisti, il rischio di incomprensioni e risse aumenta quindi in maniera esponenziale.

Fatto salvo qualche piccolo incidente di percorso, dovuto alla nostra inesperienza, la stagione di allenamento ci ha reso tecnicamente preparati. Quello che ancora manca è un luogo fisico in cui disputare il campionato.

Purtroppo i campi di calcio non vanno bene, per il football americano c’è bisogno di uno stadio costruito ad hoc.

Giuseppe Calistri, zio del mio amico Gianfranco, è il sindaco di Castel Giorgio, paesino in provincia di Terni a pochi chilometri dal Lago di Bolsena… e se facessimo di Castel Giorgio la capitale italiana (o, magari, anche europea) del football americano? Gianfranco ne parla con lo zio, che sembra piuttosto incuriosito. Organizziamo un incontro con Bruno Beneck.

Il visionario presidente riesce a trasferire al sindaco Calistri l’immagine dello straordinario evento che, unendo le forze, potremmo realizzare. Calistri senior si fa convincere e convince a sua volta il consiglio comunale. Ora bisogna solo trovare i soldi e le maestranze per costruire uno stadio da football americano, con campo regolamentare.

Inizio campionato: luglio. Mese corrente: aprile. L’impresa è folle ma la determinazione non ci manca.

Alcuni di noi si trasferiscono per cinque settimane a Castel Giorgio. Lavoriamo duramente, giorno e notte, insieme a operai e tecnici specializzati. Sembra impossibile ma in due mesi stadio e campo prendono forma… fino ad esistere davvero.

Diamo all’impianto il nome di Vince Lombardi, coach di origini italiane che – allenando i Green Bay Packers – ha fatto la storia del football americano.

Il nucleo iniziale di giocatori romani – che, nel frattempo, ha continuato a crescere – viene ripartito tra le quattro squadre partecipanti al campionato (Tori, Diavoli, Gladiatori, Lupi), per rinforzare i rispettivi organici aumentando la spettacolarità del gioco e il conseguente possibile appeal sul pubblico italiano.

È strano ritrovarsi – come avversari – compagni con cui abbiamo condiviso mesi di entusiasmo e di fatica. La consapevolezza di essere i protagonisti di un evento di portata storica ci fa però superare ogni remora.

Luglio 1980

Il campionato sta per iniziare. L’atmosfera a Castel Giorgio è davvero elettrizzante.

Paolo Gozlino, famoso ballerino e coreografo della Rai, arruola come cheerleaders le ragazze del paese. È commovente vederle esercitarsi nelle coreografie con la stessa passione con cui noi ci impegniamo negli allenamenti.

Beneck mette in campo la sua grande esperienza di regista televisivo per realizzare un evento indimenticabile, un grande show all’americana, con dirette quotidiane e telecronaca delle partite affidata al giovanissimo Mario Mattioli.

Lo staff organizzativo crea anche un sistema di vouchers che – distribuiti a giocatori, arbitri e cronisti -– consente loro di fruire gratuitamente di alloggi, pasti e consumazioni.

Noi atleti contribuiamo al successo dell’evento andando ogni notte ad attaccare, sui muri dei paesi vicini, manifesti che pubblicizzano il torneo.

Nonostante il periodo storico caratterizzato da schieramenti radicali, le diverse idee politiche non intaccano lo spirito di gruppo. Attivisti di destra e di sinistra convivono pacificamente per tutta la durata del campionato. Tra i giocatori più forti c’è Nanni De Angelis, militante di Terza Posizione, che – accusato di essere uno degli esecutori materiali della strage di Bologna – verrà scagionato proprio grazie ai filmati che lo ritraggono in campo a Castel Giorgio.

Il campionato ha un successo strepitoso. Sulle tribune dello stadio costruito con le nostre mani non ci sono mai meno di duemila spettatori. Tifosi di tutta Italia popolano in quei giorni sia lo stadio che il paese. Lo scudetto lo vincono i Lupi ma il risultato non è la cosa più importante. Il vero successo è che quel primo campionato si sia disputato.

Giugno 2003, Roma

Per il trentennale della nascita dei Gladiatori, la squadra in cui per anni ho militato, stiamo organizzando una grande festa allo Stadio dei Marmi. Non può mancare Bruno Beneck.

Se il football americano qui in Italia ha preso piede lo si deve, certo, al nostro impegno… ma principalmente al suo, all’entusiasmo che è stato in grado di trasmetterci, al fondamentale aiuto che ci ha sempre garantito. Non lo sento da due anni. Le nostre telefonate, nel corso del tempo, si sono involontariamente ma inesorabilmente diradate.

– Ciao presidente!

– Ciao campione!

In realtà è quella di Beneck una stirpe di campioni (le figlie Daniela e Anna sono state nuotatrici leggendarie, sposate a loro volta con due olimpionici di atletica leggera). Quel saluto mi mette in imbarazzo ma, al tempo stesso, mi inorgoglisce… perché evidentemente Bruno un campione mi considera davvero. Forse anche solo per il fatto di aver condiviso con lui l’incredibile avventura di quel primo campionato.

– Mi raccomando, ci saremo tutti… non puoi mancare proprio tu!

Lui esita. La sua voce stentata non si decide a darmi una risposta affermativa. Insisto. Ancora esitante, mi congeda con una scusa. L’indomani mi chiama la figlia Daniela.

– Mi dispiace Marcello, papà non sta bene, non può proprio venire.

Festeggiamo il trentennale. L’assenza del grande presidente si fa sentire ma dopotutto, penso, ci saranno altre occasioni. Pochi giorni dopo Bruno Beneck muore. Avrei dovuto accorgermi che le sue condizioni erano gravi. Ma la mia mente si rifiutava di accettare che il tempo fosse passato anche per lui.

Per me Bruno era sempre l’uomo energico e entusiasta che avevo conosciuto nel suo ufficio. Il trascinatore che, in quindici minuti di telefonate, aveva creato i presupposti per realizzare un sogno.

Nel 2017 il nome di Marcello Loprencipe è stato inserito nella Hall of Fame della Fidaf-Federazione Italiana di American Football, che celebra gli uomini che hanno fatto la storia di questo sport in Italia. 

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