E alla fine tocca a me. Chi sono forse lo sapete: un calciatore, un attaccante, uno a cui è sempre piaciuto fare gol. Ho giocato nella Cremonese, nella Sampdoria, nella Juventus e nel Chelsea, che ho anche allenato. Ho vinto due campionati italiani, di cui quello con la Sampdoria credo sia stato il più bello.

Ho sollevato da capitano della Juventus la coppa con le grandi orecchie. Ho vinto tutte le maggiori competizioni Uefa destinate ai club, ma la Cremonese è la mia squadra del cuore, e il Chelsea quella che mi ha fatto incontrare mia moglie.

La scoperta

Vivo a Londra, ma torno in Italia ogni volta che posso, d’estate in particolare, per rifugiarmi nella vecchia casa di Grumello, in quella provincia italiana, Cremona, dove sono nato e che voglio che le mie figlie, che sono nate a Londra, imparino a conoscere. Mi piace tenermi in forma, mangiare con cura, fare lunghe camminate e giocare a golf, che però dicono faccia male alla schiena.

E infatti, l’anno scorso, mentre facevo con la mia fisioterapista un certo esercizio per i glutei, ho sentito una fitta alla gamba, come se avessi un cane che mi mordeva il polpaccio. Nervo sciatico, mi hanno detto, niente di cui preoccuparsi. Forse no, ma ho passato sei settimane senza quasi riuscire a dormire, ho perso peso e buon umore.

C’è voluta una risonanza per scovare un’ernia appollaiata sopra al nervo, una cosa che per i dottori si poteva risolvere con un piccolo intervento, e allora avanti, facciamolo. Ma, dopo, i morsi non smettono. Così passo a una terapia in cui si inietta nella zona infiammata un gas che è una combinazione di ossigeno e ozono. E ancora niente.

L’operazione

(Foto Fabio Sasso / Agf)

Chiamo Gigi Buffon, perché mi ricordo che al Mondiale sudafricano del 2010 era rimasto bloccato da un mal di schiena tremendo. Mi passa il nome di un gigante dell’ortopedia di Milano. Lo chiamo e prendo appuntamento per il lunedì, subito dopo il mio consueto weekend negli studi di Sky. Gli consegno gli esami, lui mi guarda dritto negli occhi e mi propone un’alternativa: un’operazione, subito, in anestesia totale; oppure aspettare sei settimane sperando che l’ernia rientri per conto suo.

Scelgo l’operazione, mi lascio addormentare, e già il giorno dopo sono di nuovo a Londra, anche se in clinica mi avevano raccomandato almeno tre giorni di degenza. Mia moglie mi dice che sono matto. E io, per la prima volta in vita mia, mi sento così. Diverso. Svuotato, senza fiducia, piango senza motivo. Provo a camminare, ma è dannatamente difficile. Tanto difficile da sentirsi finiti.

Sono carico di farmaci di cui non ricordo nemmeno il nome e poi, una notte, una settimana dopo l’operazione alla schiena, sento i crampi allo stomaco, vomito, e da quel giorno smetto di mangiare, in preda alla nausea. Succhio liquirizia, che dicono aiuti, ma l’unico risultato che vedo, nel bagno, è un getto sempre più scuro. Denso.

Chiamo Sky per annullare il collegamento del sabato. Vado a Milano la domenica, con i denti stretti, e un maglione sotto alla camicia per non far vedere quanto peso ho perso. «Stai bene?» mi chiedono i colleghi. «Sto bene» rispondo. Ma non è vero. E il giorno dopo il dottore mi guarda di nuovo negli occhi.

Fuori dall’ospedale c’è scritto, a caratteri grandi: “Humanitas”. Che poi significa esattamente questo: guardarsi negli occhi e parlare. I miei, di occhi, sono gialli. E il dottore mi dice: «Si fermi, Gianluca».

Il cancro

01/12/2018, Genova, Campionato di Calcio di Serie A, Sampdoria-Bologna, nella foto lo striscione in Gradinata sud per Gianluca Vialli

Lo guardo, dubbioso. Perché mi devo fermare? La mia vita è un continuo movimento tra Londra, Milano, la Bbc, Sky, la mia famiglia, i colleghi, i campi da golf, gli amici. Cosa devo fermare? La risposta me la dà la risonanza magnetica: ferma tutto, Luca. Hai un cancro al pancreas.

Quando me lo dicono io ancora non lo so che è uno dei più gravi, ma lo capisco da come il dottore soffia le parole fuori dalle labbra: «Ci sono buone possibilità». Buone possibilità di cosa? mi chiedo. E, quando lo capisco, io che fino a quel momento della mia vita da atleta non sapevo niente di malattie, biopsie, pet-scan, di linfonodi e liquidi di contrasto, mi sento perduto.

Alla prima biopsia che faccio, il tecnico la butta lì: «Io non vedo niente, sai? Forse è benigno». Allora lo abbraccio e lui ride, imbarazzato. Questo è davvero il colmo per un interista: essere abbracciato da Gianluca Vialli! Ma il mio tecnico preferito, purtroppo, si sbaglia. Non è benigno.

Come in un resort

E bisogna muoversi in fretta: ho una settimana prima dell’operazione. Mi rifugio a Grumello, nella parte di casa che mio papà mi ha donato e che ho sistemato per la mia famiglia. Siamo in pianura, ma per me è come essere sulle montagne russe.

In qualche modo riesco a mettere ordine tra le emozioni: se c’è una cosa che ho imparato a fare nella vita, mi dico, è prepararmi alle cose difficili. Alle grandi partite. So di avere un ottimo allenatore, una squadra perfetta: mia moglie, mia sorella, i miei fratelli. I miei genitori. Loro sono anziani, sono invecchiati bene, come gran parte dei miei avi. Pasta forte, noi Vialli.

E quindi, durante quella settimana, prometto a mio padre che non me ne andrò prima di loro. Però faccio testamento e, nel farlo, vedo tutte le cose della mia vita per quello che sono: cose. Mentre io, mia moglie, le bambine, i miei fratelli, mia madre e mio padre, i miei amici, tutti noi, tutti voi, siamo molto di più. Siamo pensieri e legami, siamo emozioni e parole.

Siamo il futuro che riusciamo a immaginarci. Immaginandolo, il futuro, decido di non dire ancora niente alle bambine. La storia di quello che mi accade viene tessuta e protetta, come spesso succede, dalle donne di casa, che sono straordinarie: mia moglie, che cerca, parla, prepara, sistema e, quando è necessario, dorme per una settimana sul lettino secco dell’ospedale per essere la prima persona che vedo quando apro gli occhi. È positiva e riposata come se fossimo in vacanza nel migliore resort del mondo. E mia sorella, pronta a prendersi cura di me dopo l’operazione.

«È andata bene»

Entro il 29 novembre, lo stesso giorno in cui, nel 1899, venne fondato il Futbol Club Barcelona. Sono pronto. Mi addormento giurandomi di svegliarmi ancora. E mi sveglio. Sento delle voci, ma non riesco ad aprire gli occhi. Due persone borbottano che l’operazione non è servita a niente, che è tutto pieno, il cervello, i polmoni.

E allora io, semicosciente, sul tavolo operatorio duro su cui la mia schiena è rimasta ferma per nove ore, grido: «Vi sento! Sento tutto!». Loro mi sussurrano che non stavano parlando di me, chiudono la tenda e si allontanano. E per me è tutto. Quando mi sveglio di nuovo c’è mia moglie, ho tubi collegati al collo e all’addome. E una lunga cicatrice in mezzo agli addominali. Lei ha gli occhi che bruciano di felicità.

«È andata bene» dice.
«Quanto devo stare, qui?» le chiedo.
«Quattordici giorni.»

Certo. Come no.

Dirlo alle bambine

Esco dall’ospedale dopo sei, tra le proteste dei medici, e mentre mia moglie torna a Londra a tessere la storia per le bambine, io mi affido alle cure di mia sorella, che mi coccola come se fossimo ancora negli anni d’oro dell’infanzia e, per me, certe mattine, con il sole chiaro dell’inverno che filtra tra le tende, è come se il tempo non fosse mai passato e non avessi ancora vissuto niente.

Il Natale è vicino, e mi sento come un bambino che aspetta i regali. Una settimana dopo mi accompagna a togliere i punti e a prendere una lettera in cui mi invitano a condividere un lungo trattamento postoperatorio con il professor Cunningham, a Londra. Sarà lui, ora, a occuparsi di me. Ma prima c’è il Natale.

Lo passiamo in Inghilterra tutti insieme, e io guardo queste persone come forse non le avevo guardate mai. Il giorno di Santo Stefano, con la casa che ha ancora l’odore della carta da pacchi strappata, lo dico alle bambine. Come? Così, come lo sto dicendo a voi.

E mentre parlo con loro, e loro piangono e io piango, capisco che non è vero che il cancro è questo grande nemico da sconfiggere. Non è una lotta per uccidere lui. È una sfida per cambiare sé stessi. Una sfida che mi ha portato dagli ottantadue chili e mezzo di quando ho fatto quell’esercizio di fisioterapia ai sessantasette di Natale.

Quando finisco il mio magro racconto, in casa c’è silenzio, e caldo. Le bambine mi abbracciano, sono con me. La parte più difficile è passata. Il resto è affidato al professore Cunningham, luminare dell’oncologia, che per mia fortuna lavora in un ospedale appena dietro l’angolo di casa mia e che, per ulteriore fortuna, è un tifoso del Chelsea: legge la lettera di Milano, si dice d’accordo con tutta la terapia prevista.

Oltre la paura

(Cal Sport Media via AP Images)

E così partiamo: prima chemioterapia il 9 gennaio, per otto mesi (sei capsule al giorno, tre al mattino e tre alla sera e infusione intravenosa), seguite da sei settimane di radioterapia. La mia vita diventa un’immensità di effetti collaterali che mi vengono scagliati addosso come proiettili, ma che mi mancano tutti.

Ignoro volutamente le percentuali che il cancro ritorni, perché chi gioca a calcio sa bene che se c’è una cosa che fa impazzire gli amanti delle statistiche è che nessuna serve davvero a predire come finirà una partita. Mi bombardano e mi stordiscono, sto male, e sono sorpreso, però, di provare vergogna. Quasi che quanto mi è successo fosse colpa mia.

Continuo a imbottirmi di strati e vestiti per continuare a sembrare Vialli e, se mi chiedono come sto, minimizzo, parlo dell’ernia, o costruisco per gli amici più stretti una versione della storia che è solo una parte della verità. Ho bisogno di difendere sia me sia loro.

Soprattutto, non voglio che cambi il modo con cui mi parlano e scherzano con me. Penso molto, e leggo, anche, e la cosa paradossale è che mi sento quasi grato per quello che mi è successo (lo dico a bassa voce). È una condizione della quale avrei fatto volentieri a meno, ma mi dà l’opportunità di riflettere e di riorganizzare la mia vita da un punto di vista spirituale.

Scopro la filosofia orientale, anche quella spicciola, e la unisco alla mia dedizione per l’allenamento e all’ottimismo. Ho bisogno di dialogare con la paura. La paura vera, quella che ti fa chiudere in bagno e piangere, paura di non riuscire a dire le parole che servono.

Ne parlo con Cunningham, direttamente: «Lei ci crede, professore, che io possa guarire pensando in modo positivo che guarirò?».

E l’oncologo, l’uomo di scienza, mi risponde di sì. È tutto quello che mi serve.

Come la prima volta

Ci costruisco intorno una nuova, formidabile routine e mi ci dedico anima e corpo: mi sveglio presto, medito su piccole frasi fondamentali, cerco il silenzio, mi focalizzo sui dettagli piacevoli, visualizzo me stesso tra qualche anno, faccio esercizio, leggo e scrivo almeno un pensiero positivo ogni giorno. Gran parte dei quali sono qui, in queste pagine. Mi sforzo di vivere una vita il più normale possibile.

Mi rimetto il maglione sotto la camicia e torno in televisione, a Sky, perché sono convinto che ci sia bisogno di me. E quando un giornalista mio amico mi chiama una volta per dirmi che girano certe voci sulla mia salute, forse perché qualcuno della clinica si è lasciato scappare una parola di troppo, e che addirittura gli hanno chiesto di preparare il coccodrillo – il pezzo che esce quando uno muore –, io mi sforzo di ridere, e continuo ad allenarmi con costanza.

Non solo i muscoli, ma anche i pensieri. I primi tornano, riprendo peso, cammino e poi corro, sento i gusti, le mani ricominciano a piegarsi. I secondi cercano profondità, o altezza, non so dirlo meglio di così. Scrivo su una serie di post-it gialli le frasi che sono dentro questo libro e che ora tappezzano il mio studio. Non so da dove mi siano arrivate, dove le ho lette e sentite. Sono la mia corazza. La mia forza spirituale.

E poi sento di dover condividere con voi tutto questo. Mentre vi scrivo queste righe ho finito la chemio e i trattamenti radio, sono stato anche un po’ in Italia, in vacanza, ma ancora non so come finirà la partita, lo scoprirò più avanti. Quello che so è che mi sono preparato bene e ho dato il massimo; che la mia squadra non poteva giocare meglio di così.

E che mi hanno passato la palla, come la si passa a un attaccante. Quindi sono lì, davanti. La rete la vedo bene. E così la linea di porta, e quella di fondo. So come si fa. Ma ogni volta che calci per fare gol, è sempre come la prima volta: hai bisogno di un bel po’ di coraggio. E, anche, di un pizzico di fortuna. 

da Gianluca Vialli, Goals, Mondadori, 2018 

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