Nel 2013, dopo l’estate della maturità, mi sono trasferito a Roma. Mi ero messo in testa di fare lo scrittore, desiderio che i miei avevano accolto come se avessi dichiarato di volermi arruolare nello Stato Islamico, e mi ero iscritto alla facoltà di Lettere de la Sapienza.

Nell’appartamento in affitto, tre-vani arredati di un coinquilino con cui non avrei stretto, mi guardavo attorno con un inedito senso di estraneità, roba con cui oggi ho un legame ferreo, quando i miei mi hanno detto che loro dovevano andare. Baci e abbracci asciutti, a casa noi piangiamo poco, e si sono piazzati nel pianerottolo, di fronte a me. Un’ultima occhiata, uno sguardo che ricordo a stento ma che mi fa ancora male, e sono spariti, risucchiati da una vita fatta di spazi e tempi che non avremmo più condiviso.

Chiusa la porta, ho avuto un attacco di panico. A diciott’anni, con poca esperienza per rifinire me stesso, non potevo capirlo, ma a vivere in un’altra città non ero pronto. Ero triste, ma ero pure arrabbiato con un’entità che negli anni ho chiamato con nomi diversi: Politica, sistema, Sud. Insomma, mi ci costrinsi, al trasferimento. Ero immaturo, un bimbo che d’un tratto siede al tavolo dei grandi, e credevo che vivere solo fosse la giusta terapia d’urto. Questa però non è stata la sola ragione per cui sono partito, ce n’era un’altra e aveva a che fare con la paura di rimanere incastrato in questo nostro Sud senza misericordia.

Costretti a lasciare il Sud

Sono tanti i ragazzi che dal Mezzogiorno si trasferiscono al Nord. Chi con un arrivederci e chi con un addio, ma tutti alla ricerca di un futuro che altrimenti parrebbe non esistere. Belli e disastrati, appena maggiorenni e con una giusta dose di confusione in corpo, ci trasferiamo per università più rinomate. E chi dapprima sceglie di rimanere e laurearsi in casa, invece, finiti gli studi si trova a dover rispondere a una domanda che per noi terroni è di rito.

«E quindi ora? Che fai, te ne vai?»

Legati dagli stessi natali, soffriamo lo stesso destino.

Ci laureiamo, prima la triennale e poi la magistrale, che senza specialistica fai poco, dicono. Frequentiamo corsi di formazione, che è meglio farli, dicono. E intanto ci guardiamo attorno, zitti ma mai in pace. Ciò che abbiamo davanti però è un panorama desolante. Le aziende sono poche, a volte piccole: non ce l’hanno, la forza di assumerci. Vorrebbero, ma la fatica è troppa.

Quindi qui che facciamo? Poco. E allora? Allora ce ne andiamo.

È a causa di questa tendenza che il Sud sta assistendo allo spopolamento e al calo demografico. Le nostre sono regioni martoriate da una storia che non ha pietà, le terre del sole oggi sono le terre del fuoco, o scappi o bruci lentamente, e chi può va via. Perché, diciamocelo: cosa saremmo altrimenti? Senza la fede nell’inatteso, la fiammella della speranza, l’aspirazione a un obiettivo, cosa saremmo? Polvere, ecco cosa. Quella che si incrosta nelle strade dei paesini dell’entroterra vuoti, che si accumula negli interstizi dei negozi in fallimento, che aleggia in un’aria pulita ma che ci ammala.

Eppure, il Sud non è questo. È calore umano, è accoglienza, è storia senza fine. Il Sud è uno stato mentale. È andare al mare pure a novembre, che il sole ancora picchia. È mangiare così tanto a una festa da dover allentare la cinta aspettando il dolce. È scoprire un nuovo amico in fila alla posta. È inorgoglirsi percorrendo le vie dedicate agli eroi – Falcone, Borsellino, Impastato. È camminare tra i miti greci – Polifemo, Erice, Aretusa. È accanirsi sulla diatriba arancino/arancina che la tradizione è ninfa vitale. Il Sud è questo e altro, e io per Lui provo un amore incrollabile, ma è un sentimento che non potrà mai essere ricambiato.

La nostra terra offre poco a chi cerca di risollevarla, coloro i quali vorrebbero svegliarla dal coma faticano il doppio a realizzarsi e a realizzarla. Ecco perché scappiamo: perché in amore, dicono, vince chi fugge.

Secondo un’indagine dell’istituto Toniolo, l’85 per cento dei giovani del Sud sarebbe disposto a trasferirsi per un impiego ben retribuito. Secondo un rapporto della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno, tra il 2002 e il 2017 sono state due milioni le persone che hanno lasciato il Sud.

Alcuni per studio, la corsa alle università prestigiose è storia vecchia, altri per lavoro, al Nord le possibilità d’impiego sono maggiori. Ed è questa la vera emergenza del Meridione: la fuga a cui siamo costretti. Un abbandono forzato che ha ripercussioni sull’economia, ma pure sulle vite di migliaia di famiglie; genitori e figli separati da centinaia di chilometri.

E per carità, vivere in una metropoli è un’esperienza unica. Il Nord ci accoglie, ci ospita, ci fa sentire a casa. Ci offre occasioni che, per limiti di natura, a noi non spetterebbero, ci fa scoprire un mondo nuovo, ci regala fratelli e sorelle. I sacrifici, però, sono tanti e quando il trasferimento non è una scelta la vita è dura.

Il compleanno del nonno, la nascita del nipote, l’anniversario dei genitori. Il pranzo della domenica, la pizza del sabato con i vecchi amici, gli addobbi di Natale. Piccoli accadimenti del quotidiano che degradano in pulviscolo della memoria. E mentre ci rinunciamo, a questi benedetti, maledetti accadimenti, guardiamo mamma e papà invecchiare nello schermo del cellulare.

Cene su Skype, videochiamate fiume, foto dal supermercato per capire quale detersivo comprare. Li guardiamo ingrigirsi e stancarsi con la consapevolezza che pure loro, loro che parevano divinità, non sono eterni.

Inutile cercare il colpevole di questa migrazione forzata, dovremmo scavare tra malefatte politiche e controsensi sociali e quello che abitiamo, in effetti, è un mondo insolubile fatto di errori che perpetriamo come seguendo istruzioni fasulle. La crisi del Mezzogiorno, vecchia ma sempre attuale, è uno dei mostri generati da questi errori che, consci solo a metà, continuiamo a nutrire.

Ripensare il lavoro al Sud

Una soluzione però noi la cerchiamo ancora, e mesi fa è nata un’associazione. Creata da giovani professionisti accomunati dall’esser stati costretti a lasciare il Sud, promuove il fenomeno South Working, di cui adesso si parla molto. A marzo l’Italia ha iniziato a lavorare da remoto e molti impiegati del Sud sono tornati alle città natie, ragazzi che hanno scelto di rincasare da mamma e papà sia per non pagare l’affitto, sia per star loro vicino. Molti credono che il South Working, procedendo su un doppio binario, possa aiutare sia giovani, non più costretti a partire, sia l’economia del Mezzogiorno, in cui circolerebbero più soldi. Che sia la soluzione ai problemi del Meridione?

Sembrerebbe essere una strada valida, insomma, ma si vedrà. Di certo c’è che noi non vogliamo lasciarlo, il Sud. Non vogliamo lasciarla, la famiglia. E non vogliamo lasciarla, la vita qui. Vogliamo ricostruirla, questa terra, e con lei costruire noi stessi.

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