Il suo nome dirà poco ai lettori, ma l’Italia tutta deve qualcosa a Gian Carlo Calidori, morto a fine gennaio 2023 a Roma, dove viveva. Aveva 69 anni, era originario di Terni, dove negli anni del liceo aveva conosciuto Sergio Secci, che morì nella strage di Bologna: suo padre, Torquato, fu il primo presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime.

Gian Carlo conobbe in seguito Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, giovane di Torpignattara anche lui morto a Bologna: il suo corpo fu l’ultimo riconosciuto, i familiari lo credevano in quei giorni a Londra, dove però non era mai arrivato. Anna e Gian Carlo si telefonarono, si videro di persona, si innamorarono. Dal dolore per le morti di Mauro e Sergio sbocciò un legame inespugnabile. E un matrimonio, celebrato con rito civile il 20 ottobre 1983 in Campidoglio.

Una festa repubblicana

Gian Carlo è stato un eroe civile, di quella specie particolare la cui importanza si scopre solo dopo la loro morte. Vent’anni dopo la strage alla stazione, all’alba del nuovo millennio, lui e Anna avevano iniziato a scrivere lettere alle più alte cariche istituzionali della Repubblica: il capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, i presidenti di Camera e Senato Pier Ferdinando Casini e Marcello Pera, lettera ognuna diversa dall’altra, personalizzate a seconda del destinatario, ma con una medesima proposta: «Stabilire una festa per ricordare, senza differenza alcuna, le vittime del terrorismo, tutte», perché «noi abbiamo fatto l’esperienza del terrorismo dalla parte delle vittime, poi abbiamo scelto di stare dalla parte di tutte le vittime».

Quella “Festa repubblicana”, secondo Anna e Gian Carlo, andava istituita il 9 maggio, cioè il giorno in cui venne ritrovato il cadavere di Aldo Moro, ma anche il giorno dell’uccisione di Peppino Impastato, il ragazzo siciliano la cui vicenda dimenticata (proprio perché avvenuta in un giorno così gravido di conseguenze per il paese) era stata meritoriamente riportata all’attenzione nel 2000, dunque a ben ventidue anni dai fatti, grazie al film I cento passi di Marco Tullio Giordana.

Ma l’idea di Anna e Gian Carlo era ancora più nobile e ambiziosa: un’unica ricorrenza «per togliere, alle memorie separate e contrapposte, proprio questo senso di contrapposizione». E soprattutto comprendendovi anche una soluzione politico-istituzionale (grazia, amnistia, indulto) per i colpevoli, una volta individuati, da considerare come persone. Non dunque vendetta, ma giustizia nella verità e nella pietas.

La rinconciliazione mancata

Oggi il calendario repubblicano prevede tale ricorrenza: è il “Giorno della memoria”, fissato appunto il 9 maggio attraverso una legge approvata dal parlamento nel maggio 2007. Che recita così: «La Repubblica riconosce il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Aldo Moro, quale “Giorno della memoria, al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice».

Quella legge non ha però previsto alcuna “soluzione politico-istituzionale” che sancisse anche concretamente la riconciliazione nazionale a cui pensavano Anna e Gian Carlo, che nella loro idealità immaginavano una festa sul modello del Sudafrica, dove dal 1995 ogni anno si celebra infatti il Giorno della riconciliazione, il 16 dicembre, data densa di significati per entrambe le comunità: per gli afrikaners, era infatti il giorno in cui si ricordava la vittoria dei voortrekker sulle truppe zulu nella battaglia di Blood River nel 1838, mentre dall’altra parte quel giorno era l’anniversario della fondazione, nel 1961, di Umkhonto we Sizwe (“Lancia della nazione”), il braccio armato dell’African National Congress di cui Nelson Mandela fu uno dei fondatori.

Altre lettere

Allora l’Italia non era pronta per una cosa del genere (e oggi probabilmente lo sarebbe ancor meno). Comunque sia, dal 2008 il 9 maggio è il “Giorno della memoria” italiano. E alla prima celebrazione al Quirinale, dove allora sedeva Giorgio Napolitano, vennero invitati ufficialmente anche Anna e Gian Carlo.

Che nel frattempo non avevano mai mollato la presa, con un fiume di lettere che aveva raggiunto anche numerosi parlamentari di tutti gli schieramenti, alcuni dei quali toccati personalmente da vicende di terrorismo. Avevano scritto anche a Romano Prodi, allora presidente della Commissione europea, nel suo caso la lettera conteneva un riferimento appunto al terrorismo in Europa: e Prodi si era detto senz’altro interessato.

Un’altra lettera l’avevano indirizzata addirittura a papa Giovanni Paolo II, sottolineando come l’Europa avesse molto da imparare dal Sudafrica e dal suo percorso di riconciliazione nazionale dopo decenni di apartheid. E Wojtyla ne era rimasto colpito, visto che aveva fatto giungere alla coppia un messaggio di «vivo apprezzamento» per l’iniziativa, perché tesa «alla purificazione e pacificazione di tutte le vittime del terrorismo e animata da nobili e profonde idealità spirituali, morali e civili».

Melograni

Le risposte arrivate in prima battuta dai politici avevano dato la misura dell’imbarazzo che probabilmente li aveva colti di fronte a una sortita tanto inattesa e coraggiosa, venendo da chi affermava di avere «in serena e sovrana solitudine elaborato il lutto in senso civico e generale, oltrepassando il legittimo dolore personale e famigliare».

E quindi Casini aveva promesso ad Anna e Gian Carlo che si sarebbe impegnato sul problema della rimozione del segreto di Stato sulle stragi, non esattamente quanto richiesto, mentre Pera neppure aveva risposto.

Al presidente Ciampi era stata fatta arrivare anche una proposta, in forma di dialogo in versi, con l’idea di piantare un albero simbolico nei giardini del Quirinale. E Ciampi aveva risposto, esortandoli «a continuare la vostra opera, affinché il sacrificio di tante vittime costituisca anche per le giovani generazioni esempio e stimolo a esaltare i valori della libertà, della democrazia e della pacifica convivenza».

L’albero suggerito da Anna e Gian Carlo a Ciampi era un melograno. E la simbologia era immediata: il frutto a chicchi rossi come il sangue, quello versato negli anni del terrorismo, ma chicchi stretti l’uno all’altro, quasi a sostenersi, come dovrebbe essere appunto una comunità nazionale.

Ma al tempo stesso ce n’era una seconda, più sottile e significativa: molti chicchi in una sola scorza, come unica doveva essere la legge a ricordare tutte le vittime dei terrorismi. A far piantare quel melograno fu però il successore di Ciampi, Napolitano, non nei giardini del Quirinale bensì nella tenuta di Castelporziano: era l’albero che la coppia gli aveva donato il 15 maggio del 2007, nel primo anniversario della sua presidenza.

Altri melograni sarebbero stati donati nel 2009 agli allora presidenti del Senato Renato Schifani e della Camera Gianfranco Fini, assieme a targhe commemorative di tutte le vittime dei terrorismi e delle mafie: e nei siti istituzionali dei due rami del parlamento la circostanza è opportunamente segnalata, fotografie comprese.

Il perdono

Anna e Gian Carlo intrapresero in quei mesi anche un rapporto epistolare con Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, gli ex terroristi dei Nar giudicati colpevoli con sentenza definitiva per la strage di Bologna (da loro sempre negata). Poi li incontrarono. E concessero loro il proprio “perdono”.

Parte di quel carteggio venne prodotto dalla difesa Mambro al Tribunale di sorveglianza di Roma che di lì a poco avrebbe dovuto pronunciarsi sulla richiesta di libertà condizionale (anticamera dell’estinzione della pena) per la donna. L’esito fu positivo e, ai fini della decisione, il rilievo del percorso di riconciliazione tra le due coppie è espressamente citato nella relativa ordinanza del settembre 2008.

Pochi anni dopo però, nel 2012, Fioravanti sposò pubblicamente l’ipotesi che proprio Mauro Di Vittorio, il fratello di Anna, potesse essere stato il corriere più o meno inconsapevole della bomba di Bologna: un’ipotesi lanciata dall’allora deputato bolognese della destra Enzo Raisi in un proprio libro, nell'ambito della cosiddetta “pista palestinese”, ma totalmente campata per aria, oltre che immediatamente smontata da Ugo Maria Tassinari e Paolo Persichetti (e più tardi dalla Procura di Bologna, che archiviò il tutto) nel silenzio dei media.

E due anni più tardi sempre Fioravanti, ancora pubblicamente, sostenne in maniera un po’ surreale che la moglie Francesca Mambro aveva ottenuto la libertà condizionale non grazie al perdono di Anna e Gian Carlo, ma «nonostante» quello stesso perdono.

Gian Carlo è morto felice di poter stringere in mano un libro, appena uscito, che racconta anche questa “piccola storia ignobile” che ha incrociato nel corso della sua vita. Fortunatamente non ha letto invece l’ultima versione che di tale storia Mambro e Fioravanti hanno dato appena pochi giorni dalla sua morte, affidandola a un articolo su “L’Opinione delle Libertà”, in cui si legge che «sostengono di avere, sì, ricevuto una visita di due familiari di Mauro Di Vittorio, che avrebbero loro “offerto in regalo” il perdono per la strage. Ma di avere altresì rifiutato, ringraziando cortesemente per il gesto». Sia lieve la terra a Gian Carlo Calidori, uomo buono, saggio e giusto.

© Riproduzione riservata