“Città di spie, Kabul, messe alle costole di ogni straniero. Capitale di macerie, di mendicanti che stazionano a ogni incrocio, di bambini laceri e affamati”. Così Maria Grazia Cutuli descriveva Kabul.

Lunghi capelli rossi, fisico minuto, sofisticata, coraggiosa e testarda, Maria Grazia Cutuli, giornalista del Corriere della Sera, era nata a Catania il 26 ottobre 1962. È stata uccisa in Afghanistan il 19 novembre 2001. Aveva 39 anni.

Laureata con 110 e lode all’Università di Catania con una tesi in filosofia su Spazio e potere di Michel Foucault, la sua carriera di giornalista è iniziata nel 1986, collaborando con La Sicilia, principale quotidiano della Sicilia orientale, e presso l’emittente televisiva Telecolor International, dove conduceva l’edizione serale del telegiornale. Trasferitasi poi a Milano, ha collaborato con la rivista Marie Claire. Ha anche ottenuto contratti a termine dal mensile Centocose e dal settimanale Epoca. Alla chiusura della storica testata si è trasferita a New York, dove ha frequentato un corso di peace keeping.

E dopo quattro contratti a termine, nel 1999 è stata assunta a tempo indeterminato alla redazione esteri del Corriere della Sera.

Dopo essere stata inviata in Cambogia, 1992; Sarajevo, 1995; Albania, 1997; Iraq, 1998; Timor Est, 1999, è arrivato nel 2001 l’incarico di seguire le operazioni militari in Afghanistan per il Corriere della Sera. Con lei c’erano anche altri tre giornalisti: l’australiano Harry Burton, l’afghano Azizullah Haidari, entrambi corrispondenti della “Reuters”, e lo spagnolo Julio Fuentes.

19 novembre 2001: l’agguato

Il convoglio con venti giornalisti a bordo di otto veicoli era partito alle 5.30 del mattino da Jalalabad e si dirigeva verso la capitale afghana. Ad aprirlo c’era una Toyota Corolla con a bordo Maria Grazia Cutuli, lo spagnolo Julio Fuentes, l’autista afghano e l’interprete. Sul secondo mezzo viaggiavano l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari, entrambi corrispondenti della Reuters, l’autista e l’interprete. A seguire le altre vetture.

A favorire gli assassini ha contribuito il fatto che il convoglio si è frantumato, spezzandosi. Mancavano tre ore di macchina da Kabul e i giornalisti si trovavano a Surobi, a circa 70 chilometri a est della capitale afghana. In meno di cinque minuti: l’assassinio dei giornalisti.

Otto uomini armati hanno bloccato le due auto, facendo scendere dalle vetture Cutuli e gli altri colleghi Fuentes, Burton e Haidari, costringendoli ad allontanarsi dal cammino sino all’angolo della montagna, dove sono stati uccisi a colpi di kalashnikov. Poi uno degli assassini ha rubato alcuni oggetti personali dell’inviata del Corriere della Sera: la borsa, un paio di scarponi, un computer portatile, una radio e una macchina fotografica.

I responsabili dell’agguato

I suoi assassini sono stati individuati dalle autorità afghane, processati e condannati. Reza Khan, 29 anni, accusato dell’omicidio, è stato condannato alla pena capitale. Nell’ottobre del 2007, nonostante il parere contrario della famiglia Cutuli, è stato fucilato.

Gli altri due, entrambi di etnia pashtun, Mamur figlio di Golfeiz e Zar Jan figlio di Habib Khan sono stati condannati: il primo a 16 anni di reclusione, il secondo a 18 anni.

Il processo in Italia

Nel 2015 presso la Corte d’Assise di Roma è cominciato il processo. “Imputati sono i due afghani Mamur e Zar Jan, che stanno già scontando la loro pena in Afghanistan”, scrive giornalistiuccisi.it, che aggiunge: “I due sono accusati di concorso in rapina per essersi impossessati, insieme con altri ancora non identificati, di una radio, un computer e una macchina fotografica appartenuti a Maria Grazia Cutuli, e di concorso in omicidio. Per la morte della giornalista in passato è stato assolto per dubbi sull’identificazione Jan Mar, mentre prosciolti per insufficienza di prove Fedai Mohammed Taher e Jan Miwa”.

In primo grado, a novembre del 2017, i due imputati – collegati in videoconferenza dal carcere del loro paese – sono stati condannati a 24 anni di reclusione. “La corte di Assise ha inflitto ai due anche il risarcimento danni ai familiari della giornalista e alla Rcs per complessivi 250mila euro. Il pm aveva chiesto 30 anni”, scrive sempre il sito giornalistiuccisi.it.

“L’anno successivo, il 15 novembre 2018, la Corte d’Assise d’appello, presieduta da Andrea Calabria con Giancarlo De Cataldo ha confermato la condanna a 24 anni di reclusione per i due afghani che avevano fatto ricorso”.

Perché rischiare la vita?

Ci si pone una domanda di fronte a fatti come quelli accaduti a Cutuli e non solo: perché rischiare la vita per “dire la verità”?  

Per fare il proprio dovere, quello di informare. Anche se questo lo si può pagare con la vita. Prima di Cutuli, abbiamo assistito ad un’altra morte atroce in Africa, a Mogadiscio. Era il 1994 e nonostante l’esperienza sul campo, anche Ilaria Alpi e Miran Hrovatin trovarono la morte per le strade di Mogadiscio.

Alpi come Cutuli sentiva forte il dovere di informare: «È la storia della mia vita, devo concludere, devo fare, voglio mettere la parola fine», aveva detto al suo collega Calvi mentre cercava di convincerlo a partire. Così decise di affrontare quel settimo viaggio, l’ultimo. Come Alpi anche Cutuli ha insistito per restare in Afghanistan e raccontare ciò che aveva scoperto.

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