A un certo punto avevano cominciato a invitare giallisti in televisione per disquisire su omicidi appena avvenuti e a pubblicare le loro ipotesi fingendo che non venissero da persone che campavano inventando storie. In quel periodo c’era ancora carenza di programmi dedicati a omicidi e assassini, mentre il giallo italiano aveva cominciato a macinare successi di vendita e critica.

I giornalisti telefonavano partendo dalla cima delle classifiche, per poi scendere sino agli autori meno paludati quando i primi si rifiutavano. Giù lungo la catena alimentare a un certo punto toccava a me, e quasi ogni settimana ricevevo richieste per dire la mia sul cadavere di una prostituta o sulla contessa pugnalata con un kriss malese.

Quelle richieste mi mandavano in crisi, sudavo letteralmente nella cornetta. Ero al secondo o terzo romanzo, e non è che i lettori dessero l’assalto alle librerie per comprarseli; la possibilità di farmi conoscere a un pubblico più ampio mi tentava. Non esiste la cattiva pubblicità, pensavo. Magari si ricorderanno di te la prossima volta che vanno in libreria anche se hai sparato qualche cazzata. Ma a questo pensiero se ne aggiungeva sempre un altro, più invadente, che riguardava non tanto le vittime, quanto i loro parenti e amici.

Conoscevo perfettamente che cosa significasse perdere una persona cara – la mia vita è stata segnata da questo – e me li immaginavo in mezzo al caos delle indagini, al dolore, allo shock, che leggevano le mie parole superficiali e autopromozionali sotto una mia fotografia con una lente in mano o una pistola finta.

Non ce la facevo.

Paura dell’ignoranza

Un paio di volte, lo ammetto, ci ho provato perché il delitto aveva dei risvolti sociali e sentivo di poter aggiungere qualcosa di utile, che era anzi un mio dovere. Venivo dall’attivismo, faceva parte di me, ma l’ansia di dire la cosa giusta e di non dire quella sbagliata trasformavano le mie interviste in rigidi comizietti sui mali del mondo. Riassunte in poche righe sul quotidiano, le mie parole diventavano patetiche e retoriche, o forse lo erano state dall’inizio.

C’era, ma l’ho capito molti anni dopo, anche un’altra grande paura, quella di dimostrare tutta la mia ignoranza. Se avessi sbagliato un termine scientifico, una data, un esempio in quella che doveva essere la mia materia d’elezione – le indagini di polizia e i morti ammazzati – tutti avrebbero capito quanto fossi un impostore. Va bene, questa è materia da psicanalisi, ma quegli scrupoli e quella paura non sono mai passati. Alla fine, hanno anzi forgiato il mio modo di scrivere: ho bisogno di conoscere la realtà, prima di ricamarci sopra e inventare.

Gli scrittori hanno dei limiti, ma la scrittura non deve averne, la scrittura deve potersi esercitare su tutto, dal microbo a Dio, e ho capito che l’unica cosa mi avrebbe permesso di riuscirvi sarebbe stata l’immersione ossessiva e totale nel mondo che stavo costruendo.

Immedesimazione

Con gli anni, questo metodo di scrittura mi ha dettato delle regole precise. Per esempio, posso scrivere un romanzo ambientato in un luogo dove non sono mai stato, a patto di averlo esaminato con mappe e foto satellitari e che il mio protagonista non sia nato da quelle parti.

Posso scrivere di personaggi di etnie differenti dalla mia, ma mai in prima persona e sempre facendo leva su quello che abbiamo in comune - gli istinti primari, i sentimenti – e non sulle differenze.

Se scrivo di una donna la cerco dentro di me o dentro la storia della mia famiglia.

Quando ho scritto un romanzo che aveva come coprotagonista un israeliano, ho passato un anno a mangiare cibo che mi facevo spedire direttamente da là, a leggere i testi dell’ebraismo, a capirci qualcosa di Cabala. Mi sono abbonato al Jerusalem Post, sono andato in templi e ghetti storici, e alla fine, comunque, ho trasformato il mio coprotagonista in un oriundo, perché quello che avevo imparato non mi bastava.

La storia

La sfida che mi si è presentata nella scrittura del Figlio del mago (Rizzoli), però, ha alzato ancora di più la mia asticella interiore, perché prima di allora non avevo mai scritto di delitti reali. Accennato e alluso sì, ma mai raccontato. Ero però venuto a conoscenza della storia di Milva Malatesta, e l’avevo trovata talmente mostruosa che non volevo finisse nel dimenticatoio.

Figlia di una donna stuprata da Pacciani e di un uomo probabilmente ucciso da Pacciani fingendo si fosse suicidato, Milva era stata per un lungo periodo amica o amante di Pacciani stesso, e, dopo che Pacciani era stato accusato di essere il mostro, era stata uccisa e bruciata nella sua automobile con il figlio di tre anni. Ho cominciato a studiarla, a fare schemi e raccogliere testi e articoli su di lei.

Ho scoperto così che Milva era stata anche amica o amante di Francesco Vinci, il primo sospettato di essere il mostro di Firenze. E leggendo di Francesco Vinci, ho scoperto che anche lui è stato ucciso solo venti giorni prima di Milva, e anche lui bruciato nella sua auto con un suo lavorante, Angelo Vargiu. Persino il figlio di Vinci sembrava essere stato colpito dalla stessa maledizione, perché la sua amante era stata strangolata e semibruciata da mano ignota l’anno seguente.

Senza giustizia

Ecco, cercando di capire qualcosa di più su Milva ero entrato inconsapevolmente nella tana del Bianconiglio, dove ogni omicidio ne porta a un altro, dove si moltiplicano le spiegazioni e tutte sembrano possibili.

Sono arrivato alle sette segrete, alle rose rosse usate come simbolo di morte, al secondo livello che comandava Pacciani, alle messe nere, ai soldi, ai complotti per eliminare chi sapeva che Pacciani era innocente.

Ho letto le formule magiche trovate in casa a Pacciani, e sono arrivato persino ai deliri di Angelo Izzo. E a molte altre cose, alcune probabili, altre meno, ma nessuna di esse provata in un’aula di tribunale. Per i morti che vi ho elencato non si è mai trovato il colpevole, e non bisogna perciò stupirsi se c’è chi vede una connessione tra gli omicidi, ma io non ho una risposta.

So solo due cose, di cui mi sono fatto forte scrivendo le avventure di Antonio nel Figlio del mago. Che Pacciani era sicuramente colpevole e che ci sono cinque morti, forse di più, per i quali non si è mai trovato il colpevole. Alla fine, l’unica cosa che conta è che per loro, complotto o meno, Giustizia non vi è mai stata.

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