Flexare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto… No, no!, non funziona.

Flexare scolpito e tatuato presso un lucente yacht carenato… Dài, meglio. Perché flexare (da flexing muscles), neoverbo forse non ancora entrato nel vostro lessico, definisce l’esibizione della ricchezza, l’ostentazione di #riccanza come nel cafonissimo omonimo show televisivo, come in tanti video di rapper e trapper, come nell’appena terminata prima estate Covid-19, che resterà nella memoria per i contagi su barche, spiagge e nei discobar tra Formentera, Mikonos e Cala di Volpe, in attesa della paventata “macelleria sociale” da molti osservatori data per imminente. In pratica, il valore del denaro legato non tanto alle possibilità che offre quanto al suo sfoggio, il dispregio per la frugalità di ricchi e poveri, frugalità intesa come deprecabile categoria dello spirito. Se, in passato, l’esibizione del soldo è stata gioiosa baldanza, trepidante vita smargiassa da boom economico, «Lavoro, guadagno, pago, pretendo» come nelle intemerate del Dogui, ossia Guido Nicheli, attore iconico dei fratelli Vanzina specializzato nella parodia del cumenda borioso, oggi questa grandigia ha cambiato sapore, si è fatta astiosa, rabbiosa.

Un tempo era allegria di averla scampata e ostentazione dell’essere ricchi grazie al lavoro, era sfoggio di un benessere accessibile a chi si dava da fare, esultanza ingenuotta come nella canzone di Garinei e Giovannini Soldi Soldi Soldi (Beati siano soldi / I beneamati soldi perché / Chi ha tanti soldi vive come un pascià / E a piedi caldi se ne sta / Soldi Soldi Soldi / Ti danno donne e whiskey / Salute e figli maschi – già, c’era pure lo sfoggio di sessismo).

Era l’Italia cresciuta sognando il self made Paperon de’ Paperoni, gran tirchio che si tuffa nella sua spropositata piscina aurifera colma di tre ettari cubici di monete, oppure il rivale, l’ereditiero John D. Rockerduck ispirato a John D. Rockfeller, spendaccione amante del lusso. Intendiamoci, soldi e vanteria sono sempre andati d’accordo, ma oggi ci chiediamo come si sia arrivati alle rodomontate dell’appuntato Giuseppe Montella e dei suoi compari, che nella caserma di Piacenza si fanno fotografare con mazzette di euro tra le dita, dispiegate a mo’ di ventaglio; ci si chiede come mai le ganassate di Sfera Ebbasta siano diventate middlebrow per le platee adolescenziali della sconfinata provincia italiana, e come sia che Gianluca Vacchi, con i suoi inconsistenti balletti tra piscine a sfioro, jet privati e criosaune casalinghe si arricchisca perché è ricco, variante plutocratica del «famoso per essere famoso».

Nulla con soldi
E poi Flavio Briatore, leader italiano della Vita Smeralda e della spensieratezza del soldo, e la sodale Daniela Garnero nota come Santanchè (cognome del primo marito, chirurgo plastico) che nelle indimenticabili interviste di Claudio Sabelli Fioretti raccontava della piccola Mercedes 320 Sl comprata al figlio «Lorenzino il Magnifichino», e ancor prima della «carrozzina monumentale» da quattro milioni comprata a Londra («Che c’entra? Era bella: se ne fosse costata dieci l’avrei presa lo stesso»), da ragazza indossava «mocassini di Hermès col filo d’oro e la borsa di Fendi», mentre la sorella, inspiegabilmente, «aveva una predilezione per i figli degli operai»; per non dire di Sonia Bruganelli – moglie di Paolo Bonolis – che, chissà perché, si diverte a esibire simboli del lusso, di nuovo il jet privato e stuoli di borsette griffate, lei dice in sfregio agli haters, dunque in una bellicosa forma di ribellione e affermazione della propria personalità: la rivoluzione della self consciousness condotta su barricate di catene dorate e pellame trapuntato Chanel. Daje.

E tutto questo senza il male di vivere dei romanzi di Bret Easton Ellis, senza alcuna traccia della tossicità aleggiante nell’universo di alienazione mercificata di Meno di zero e di American Psycho (con la vertigine delle liste). No, qui è spavalderia, vanteria in purezza, monovitigno della riccanza, e d’altronde come abbiamo detto non c’è traccia nemmeno di passione per le sorti progressive dell’umanità che portano a una joie de vivre collettiva, a una benefica festa mobile del Pil. Siamo tra lo sfregio del «tu poraccio non ce la fai e non ti resta che goderti la mia ricchezza sfogliando Instagram nella tua baracca di periferia, e più mi odi più me la godo», e la ribalderia del «mavaffanculo, togliti di mezzo che m’impolveri la carrozzeria della Lamborghini». Del resto, siamo nell’epoca degli haters, e odiare fa diventare ricco chi inalbera questa paradossale virtù, creando un circolo vizioso in cui poi si mostrano i soldi guadagnati odiando, magari anche rubando o spacciando e dunque ci si fa odiare, quindi seguire (nel senso di followare), di conseguenza si diventa ancora più ricchi.

La plutografia, come la chiamava Tom Wolfe, termine peraltro coniato dal commentatore politico Kevin Phillips, è una branca della scienza sociale che studia l’esibizione della ricchezza. Se vogliamo risalire agli ultimi anni per vedere quando il soldo si è trasformato da cafonata che non andrebbe esibita in fondamento sfrontato della salute mentale, fisica, estetica, sociale possiamo riferirici alla famiglia Kardashian che scelse di essere protagonista nell’ormai lontano 2007 di un fortunato show televisivo, A spasso con i Kardashian, da allora andato in onda per ben quattordici stagioni. Sorelle e sorellastre, genitori e genitorastri, tutti impegnati nello sfoggio di uno stile di vita griffato, tarocco, siliconato. Al contempo, cominciammo anche a occuparci delle stupidaggini di Paris Hilton, alcuni entusiasmandosi per questo personaggio autorevole nel campo del nulla con soldi, e ricordo che un giorno, quando ormai era meno di moda ma ancora famosa per il vuoto bling-bling che esprimeva, alcuni bresciani miei conoscenti (è la città dove sono nata) mi vantarono una festa, una festa di ricchi bresciani, va da sé, che aveva avuto come guest star addirittura la famigerata Paris Hilton. Evviva, che emozione. Emotion, anzi.

Del resto, c’era già stato il passaggio dalla sobrietà intinta nel senso di colpa, tipica dei poco beati anni della mia gioventù e specifica della borghesia brescian-lombarda (ossia mai far vedere, mai mettersi in mostra, mai offendere la sensibilità di chi è più povero), al magico mondo di quelli che allora venivano detti “gli arricchiti”, e in seguito “gli impalazzati”, con successivo passaggio all’esibizione impavida di ricchezze. C’era, a Brescia, un famoso geometra divenuto costruttore e poi finanziere, che girava per il minuscolo e stretto centro cittadino con una tonitruante Rolls Royce Corniche. Erano gli anni della finanza allegra, che trasformò lo stile di vita sobrio e tristanzuolo del bresciano benestante capovolgendone i canoni, da Bazoli a Gnutti «in un giro di Rolex» (cit.: Guido Nicheli in Vacanze di Natale). Oggi, magari tutto ha inizio in Cina - economia globale, inquinamento, pandemie - ma i fenomeni culturali e sociali della nostra era sono quasi sempre generati negli Stati Uniti. Torniamo dunque alla nostra America, dove tutto nasce salvo poi arrivare da noi con ritardo perlomeno quinquennale, un tempo, ora forse di soli cinque mesi. Parallelamente a Paris Hilton e alle Kardashian, ci si mise anche la musica. Se le origini del rap erano state nel racconto di storie di miseria e marginalità dei ghetti, si passò in breve al successo del gangsta rap, dove l’importante era ostentare quello che si poteva ottenere grazie allo spaccio e ad altre carinerie: ecco allora l’affermazione di Puff Daddy e dei suoi epigoni, tutti catenone d’oro, pellicce, diamanti nei denti, e un piacere sfrontato di essere cafoni, di un cafone talmente esasperato che poi divenne glamour. Memorabile il sorriso del rapper e galeotto Tekashi 6ix9ine, con la moda ormai passata dei grillz, pseudo apparecchi d’oro e pietre preziose da calcare nell’arcata dentale per sfoggiare dei bei sorrisoni luminescenti come palle stroboscopiche. Del resto, il glamour del cafonazzo impupazzato dai brand del lusso di massa ha spinto marchi di raffinatezza leggendaria, come quello fondato dal couturier Cristóbal Balenciaga, che vestì Audrey Hepburn, Marella Agnelli e Jackie Kennedy, ad adeguarsi alla temperie morale contemporanea gigantizzando il logo su cappellini e magliette e soprattutto sulle mostruose Multicolor Triple Sneackers, tra il piede di papera spampanato e la molleggiatura da passeggiata sulla luna. Se per caso vi venisse voglia di comprare una polo Ralph Lauren, scoprireste che l’iconcina di cavallo e cavaliere un tempo grande come l’unghia di un mignolo, identitaria ma non vistosa, oggi si è gigantizzata e occupa un terzo della maglietta.

Ti amo più del cash, forse
Tornando al rap, poi trap, c’è il curioso fenomeno del non commerciale col mito del commerciale. Per esempio, la Dark Polo Gang, fenomeno della trap nostrana, con tutti i luoghi comuni screanzati dello sfoggio di tatuaggi, piercing, banconote e griffe, ha visto l’uscita dal gruppo del creativo Dark Side (ora Side Baby), perché gli altri componenti, traviati da Fedez, sono divenuti troppo commerciali (artisticamente parlando). «Penso di amarti più di quanto ami il cash», è il laconico ritornello della canzone Toy Boy.

Spostandoci dalla musica alla politica, c’è la recentissima la polemica che riguarda Maria Elena Boschi, vistosamente appassionata di marchi del lusso. Fulvio Abbate ha deprecato, in una lettera a Dagospia, la cintura Hermès sfoggiata dalla capogruppo di Italia viva in una foto con ponte Vecchio sullo sfondo. Hermès come «marchio del glamour affluente provinciale», con l’H in evidenza, svela «l’orgoglio feticistico piccolo borghese custodito nell’ostentazione di un significante provinciale». Siamo insomma dalle parti di Comunisti col Rolex, come nella canzone di J-Ax e Fedez.

Certamente, il lusso blasé di marchi non affermati e dunque ignoti alle masse non serve ad affermarsi su Instagram: sarebbero troppo pochi a riconoscerlo. Meglio essere tappezzati di gigantesche D di Dior che indossare un solaro sartoriale, di cui quasi nessuno comprende l’attribuzione di sciccheria. Più esseri umani desiderano un oggetto, più quello acquisisce valore, al di là del costo di produzione. Il valore, come sappiamo, non è mai in sé bensì è frutto di un’attribuzione. Georg Simmel, uno dei fondatori della disciplina sociologica, riteneva che la moda incarnasse il compromesso tra pulsione all’individualità e pulsione al conformismo. Ma per acquistare costosi prodotti di moda bisogna ricorrere al denaro, «che ha a che fare solo con ciò che è comune a ogni cosa, il valore di scambio, che riduce tutte le qualità e le specificità al livello di domande che riguardano solo la quantità». Nel suo saggio Sulla psicologia del denaro (appena ripubblicato da Einaudi nel volume Stile moderno), Simmel spiega come il denaro, che in un primo tempo ha un valore vicario, serve cioè a concretizzare uno scopo, per un tipico atteggiamento della psicologia umana finisca per convertirsi da mezzo in fine, perdendo l’ultimo stadio del suo svolgimento teleologico. Il che non ci trasforma necessariamente in avari alla Paperon de’ Paperoni, interessati solo a custodire soldi senza spenderli, «come criceti che tendono ad accumulare il cibo», ma può spingerci a comprare forsennatamente «il maggior numero possibile di cose solo perché si desidera comprarle, senza trarre alcun beneficio tangibile dall’utilità specifica in vista della quale sono state fabbricate».

Dio, il denaro e il dio-denaro
In questo studio del 1900 straordinariamente adattabile alla nostra contemporaneità, persino a quella del Covid-19, Simmel scrive: «Qualcuno ha scritto che il denaro è il Dio del nostro tempo. Lo ha fatto in tono elegiaco-sarcastico, eppure tra le due rappresentazioni, a prima vista così incompatibili, sussistono davvero dei nessi psicologici degni di nota. L’essenza profonda del concetto di Dio consiste nella capacità di portare all’unità l'irriducibile molteplicità del mondo, nel suo essere coincidentia oppositorum, per citare la bella espressione di Niccolò Cusano. Con l’idea che in Dio tutte le contrapposizioni e tutti i contrasti insanabili del mondo verrebbero riconciliati e riequilibrati si spiega il senso di pace e sicurezza che quell’idea ci ispira (…). Non occorre aggiungere altro per chiarire l’affinità psicologica tra l'idea di Dio e l’idea del denaro. Il tertium comparationis è dato dal sentimento di quiete e sicurezza che il possesso del denaro ci comunica, a differenza di qualsiasi altro possesso materiale: un sentimento così simile alla pace che la persona religiosa ritrova nell’idea del suo Dio (…). L’idea di Dio nella forma della fede religiosa e quella del denaro nella forma della concretezza rappresentano il massimo livello di astrazione al quale la ragion pratica ha saputo elevarsi».

Eccoci dunque tornare agli autoscatti dei carabinieri corrotti di Piacenza con lo sventagliamento di banconote; eccoci ai famigerati fratelli Bianchi con le bottiglie di Dom Perignon esposte sopra il relativo astuccio, status symbol quanto lo champagne contenuto nella bottiglia che magari non saprebbero nemmeno distinguere da un prosecco (la confezione vale più del contenuto); eccoci ai billionari degli Hamptons con i campeggi privati per i figli, descritti dal Wall Street Journal e per cui Rana Foroohar si chiede sul Financial Times come mai i disoccupati americani non prendano il forcone per dirigersi agli Hamptons; eccoci alle mascherine d’oro e diamanti bianchi e neri con filtri N99 da un milione e mezzo di dollari, e a tutte le altre centinaia di migliaia di forme di lusso esibite ai tempi della pandemia dopo anni di crisi economica globale, di migranti che affogano, di schiavitù rinnovate 2.0. E però indignarsi è superficialità fuori luogo perché in fin dei conti sono tutte forme di fede religiosa, sono idee di Dio, con il denaro che è concretezza ma anche astrazione, salvifico balsamo della nostra eterna ricerca di senso.

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