In bianco e nero è più chic. E i colossi dell’home entertainment hanno scoperto che non è più un business di nicchia. C’è una piccola rivoluzione di mercato dietro il boom post-pandemico di cinema non a colori. C’mon C’mon di Mike Mills (in sala dal 7 aprile), Belfast di Kenneth Branagh, Parigi,13Arr. di Jacques Audiard, The French Dispatch di Wes Anderson sono titoli da grande schermo, ma su Macbeth di Joel Coen, Malcolm & Marie di Sam Levinson, Passing, ottimo esordio registico di Rebecca Hall, c’è il marchio di proprietà delle grandi piattaforme. Sono film-passaporto dei produttori di serie per entrare nei salotti buoni. Sono un richiamo appetitoso per i cinefili, quote di pubblico da agganciare.

La doppia prova di Netflix con Roma di Alfonso Cuaròn nel 2018, e con Mank di David Fincher nel 2020 (con relativo codazzo di Oscar e altro) è stata la prima spallata, e ha accelerato i processi.

Tramontano i credo delle vecchie Majors, storicamente persuase che il bianco e nero sia una iattura per il box office. Le nuove potenze che controllano i consumi popolari di audiovisivo si disputano anche il campionato arty di serie A: basta lasciare carta  bianca ai grandi talenti, accertati o solo promessi.

Emozioni ed estetica

Il bianco e nero è un potente veicolo di cortocircuito emotivo, non solo estetico. Dagli schermi, in realtà, non è mai scomparso del tutto. Ma adesso che si sono aperte le dighe, vale la pena di ricordare che è stato oggetto di una lunga e ostinata battaglia di resistenza.

Saltando gli anni Sessanta, in cui l’anti colore era il vessillo del nuovo cinema europeo (ma anche Kubrick firmò con Il dottor Stranamore il suo ultimo film b/n, nel 1964), tra i Settanta e gli Ottanta ha offerto asilo ai dissidenti del mainstream.

È stato un marchio di garanzia per Jim Jarmush, che lo ha frequentato assiduamente. Ha messo le ali alla creatività di Peter Bogdanovich: L’ultimo spettacolo è del 1971, Paper Moon del 1973.

Ha consentito a David Lynch e a Spike Lee di debuttare a bassissimo costo, rispettivamente con Eraserhead e con Lola Darling. Pochi ricordano che Woody Allen tra il 1979 e il 1984 ha sfornato ben quattro film in “bergmaniano” bianco e nero: da Manhattan a Broadway Danny Rose.

Mel Brooks non si è mai stancato di ripetere che Frankenstein Jr. è stato il suo film più bello di sempre. Con Toro scatenato Martin Scorsese ha portato Bob De Niro all’Oscar.

Gli anni Novanta

A ripensarci, è questo il filo rosso che collega anni e anni di emozioni vissute nel buio delle sale, non necessariamente in modalità cinefila. Negli anni Novanta non c’era produttore disposto a scommettere un centesimo sul bianco e nero, ma ci fu un’onda anomala di titoli forti: in modo radicalmente diverso, Steven Spielberg con Schindler’s List, Mathieu Kassowitz con L’odio e Tim Burton con Ed Wood hanno scolpito l’immaginario del decennio.

Nel 1994 il festival di Cannes fu costretto a moltiplicare in corsa le proiezioni per l’assalto di pubblico a Clerks, auto prodotto da Kevin Smith vendendo una collezione di figurine e utilizzando l’assicurazione dell’auto distrutta da un uragano. Mai nessun film sulla Croisette aveva strappato tante risate.

Non allineati

Purtroppo l’enfant prodige non ha mai ripetuto il miracolo. Fu un periodo fertile per i non allineati: i fratelli Coen chiusero il ciclo con la smagliante monocromia di L’uomo che non c’era, e Alexandre Rockwell - amico di Nanni Moretti e immortalato in un suo film insieme alla sua moglie di allora, Jennifer Beals – prometteva un grande futuro con il suo In The Soup.

Lo aveva girato a colori, ma era riuscito a ottenere che circolasse in bianco e nero. Non è un vezzo o un capriccio: è la natura stessa di certi film a richiederlo. Spielberg per Schindler’s List  aveva puntato i piedi: nessuna concessione alla “piacevolezza”, solo due insert colorati, di puro climax drammatico.

Di recente, Guillermo Del Toro ha firmato il contratto per Nightmare Alley con la riserva di poter distribuire in parallelo la sua versione in bianco e nero del film, sottotitolo: Vision in Darkness and Light.

La sotto storia del cinema in bianco e nero, senza contare tanti gioielli “da festival” che al nostro pubblico non sono mai arrivati, è più intrigante della storia ufficiale, perché è stata tutta in salita: una guerriglia implacabile con i produttori.

È un percorso di passione a ostacoli, fatto spesso di miseria (nel senso dei soldi) e di nobiltà (nel senso della qualità artistica) . È una lunga marcia contromano penalizzata anche dall’ostracismo insolente dell’Academy, solidamente ancorata a pregiudizi ostinati.

L’Oscar del 2011 al più esile e volatile dei prodotti non colorati, The Artist di Michel Hazanavicius, è l’eccezione che conferma la regola. Il Nastro bianco di Michael Haneke nel 2009, Ida e Cold War di Pawel Pawlikowski erano parcheggiati nella cinquina del miglior film in lingua straniera.

Nuova era

Lo sdoganamento commerciale del bianco e nero che stiamo vivendo è un sollievo, i ghetti sono forse alle spalle. Ma resta merce sospetta, che odora ancora troppo di élite dissonante. Il fuoco di sbarramento degli Oscar 2022 ha risparmiato solo due esemplari, il Macbeth di Coen e Belfast di Branagh.

La fotografia in b/n richiede talenti speciali, lo sanno anche i sassi. Ma il Bruno Dubonnel di Coen è stato puntualmente ignorato per rimpolpare il bottino “tecnico” di Dune. Questione di gusti, ma l’Oscar di contentino a Branagh per la sceneggiatura originale mette tristezza: per toccare il cuore dell’Academy c’è comunque bisogno di film “carini” e di lucciconi teatrali.

Sapendo questo, sarebbe il caso di non sorprendersi per il colpo di spugna passato su C’mon C’Mon di Mike Mills, l’outsider più sorprendente di questa riscossa di tutte le sfumature del grigio. Il plot, sulla carta, è in apparenza il più frusto dei cliché hollywoodiani:  la convivenza forzata di un essere umano adulto e di un essere umano bambino, che devono imparare a capirsi e a conoscersi.

Alcuni dei più autorevoli critici Usa, che come me sono stati sedotti dal film, sostengono che è esattamente l’opposto di quello che l’Academy prende in considerazione: low profile, mezzi toni, un Joaquim Phoenix che si concede di essere per una volta, prima che personaggio, persona.

Non è un film pretenzioso, ha una credibilità umana disarmante che sfida i copioni “ammodino”. Verrebbe voglia di consigliarlo in amicizia a chi, come Walter Veltroni, si è impegnato a documentare speranze, sogni e paure dei ragazzini.

Perché questo fa il giornalista radiofonico Phoenix nella finzione: tra Detroit e Los Angeles, tra New York e New Orleans, lavora con il suo team a un’inchiesta tra ragazzi variamente disagiati. Tra i figli di immigrati nel Bronx e i quartieri marginali di New Orleans, è un esercizio di domande e risposte anticonvenzionale e decisamente istruttivo.

È sommamente anticonvenzionale il rapporto con un nipote troppo precoce (Woody Norman) che Phoenix deve accudire pro tempore. È quell’America radical-non-chic delle case spoglie e delle strade blu, che esistono anche nelle città e che da turista non vedi. Molti registi, come Clint Eastwood, girano sempre anche i rehearsal, le prove prima del ciak.

Questo film sembra fatto interamente di rehearsal improvvisati. È come se distillasse l’essenza, da mezzo secolo alternativa, del cinema in bianco e nero. Che è sempre stato nemico delle certezze: nessuno ha le risposte giuste, si fa quel che si può.

Come nel messaggio che Jesse – nove anni all’anagrafe, ma cinquanta di saggezza - registra per lo zio ritrovato: «Nella vita non succede mai quello che pensi. Puoi solo fare il tifo, c’mon, c’mon, forza, coraggio».

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