Il cinema può ancora essere un atto di resistenza contro gli autoritarismi, ne sa qualcosa Mohammad Rasoulof in esilio da quasi un anno in Germania dopo essere stato perseguitato per anni dal regime dei mullah. Condannato a maggio scorso a 8 anni di prigione per violazione alla sicurezza nazionale, il regista è dovuto fuggire a piedi tra le montagne dal suo amato Iran.

Mesi prima aveva girato in totale clandestinità Il seme del fico sacro (Premio della giuria all’ultimo Festival di Cannes) un implacabile atto d’accusa contro il sistema della Repubblica Islamica, visto dall'interno di una famiglia sull’orlo dell’implosione. Un imperdibile thriller, dal 20 febbraio al cinema, che ci catapulta tra le mura domestiche di un giudice del regime alle prese con le figlie conquistate dal movimento “Donna, Vita, Libertà”.

Fare il cineasta in un Paese come l'Iran è per forza un atto di resistenza?

Fare il regista in Iran non ha di per sé una valenza particolare, il problema è scegliere di essere sé stessi in un Paese dove c’è una dittatura, e questo è già un enorme atto di resistenza. Nella sua essenza l’arte non ha nessun compito politico o morale, è un mezzo per esprimere idee personali e cercare di essere se stessi.

Il regime l'ha perseguitata per anni. Sono stati i mesi in carcere, le intimidazioni, la censura che l'hanno portato a passare dal linguaggio allegorico dei suoi primi film all’affronto diretto al governo con il suo ultimo Il seme del fico sacro?

L’uso del simbolismo e della metafora dei miei primi film era dettato dalla paura, cercavo di evitare il confronto con la censura perché temevo di non poter più girare film. Usavo l’alibi del tributo allo stile allegorico della letteratura e della poesia persiana, ma in realtà cercavo di evitare la repressione. A metà della mia carriera mi sono reso conto che ero imprigionato in un'estetica autoimposta e che dovevo affrancarmi dall’autocensura e ribellarmi. Sono passato a uno stile più diretto e ho iniziato a raccontare la società in modo più esplicito. Oggi con Il seme del fico sacro sento di aver trovato un giusto equilibrio tra realismo e allegoria.

È vero che l’idea del film è nata mentre era detenuto nel carcere di Evin?

Sì, ero in prigione quando è scoppiata la rivolta del movimento “Donna, Vita, Libertà”. Le proteste e i cambiamenti sociali che stavano avvenendo fuori erano tali che hanno iniziato a interferire con il sistema carcerario. Molte guardie e anche il direttore del carcere sembravano profondamente smarriti.

Ho incontrato casualmente un funzionario di alto livello che mi ha confessato la sua rabbia e la sua tristezza. Si sentiva in colpa perché era complice di un sistema repressivo e a casa i suoi figli lo criticavano aspramente per la sua posizione, lo accusavano di essere un sostenitore della dittatura. Da lì è nata l'idea di raccontare la storia di una famiglia che viene tutt’a un tratto spezzata dagli avvenimenti esterni.

Come il suo film precedente anche questo è stato girato in clandestinità. Come sono andate le riprese?

Con una sceneggiatura così ambiziosa non c’era altro modo di realizzare il film. Era molto rischioso perché i servizi di informazione e di sicurezza potevano scoprirci e confiscarci il materiale da un momento all’altro. Per minimizzare i rischi, ho deciso insieme ai miei collaboratori di avere un cast e una troupe molto ridotti, il materiale tecnico minimo indispensabile, come se stessimo girando un corto o un saggio studentesco e, come per Il male non esiste (2020), di dirigere il film a distanza per mantenere segreta la mia identità.

E il casting com’è andato? Anche i suoi attori rischiavano grosso, sono stati molto coraggiosi.

In realtà il casting è stato molto più facile rispetto ai film precedenti. Dopo la rivolta “Donna, Vita, Libertà” molti attori hanno dichiarato pubblicamente che non avrebbero più preso parte a progetti che sostenevano la censura e in cui era imposto il velo. Questo ci ha permesso di individuare da subito i possibili interlocutori, ma è stato un processo molto lento e misurato, dovevamo tastare il terreno per capire chi fosse veramente disposto a affrontare le conseguenze di un film così rischioso. Gli attori che abbiamo contattato non sapevano né che il progetto era un lungometraggio né che io ero il regista.

In un paese “schizofrenico”, in cui c'è sempre una lotta tra tradizione e modernità, come immagina il futuro delle nuove generazioni? Non crede che le sanzioni commerciali e finanziarie imposte dall’Occidente creino ancora più radicalismo e chiusura in Iran?

Più che l'Iran, il problema è la Repubblica islamica. È una dittatura che ha bisogno di creare un nemico immaginario per poter mantenere il controllo sul popolo. Sostenere che il mondo è contro di noi e che dobbiamo diventare una potenza nucleare è pura propaganda, e crea un grosso problema di fiducia tra l'Iran e la comunità internazionale.

La Repubblica islamica non rappresenta politicamente la popolazione iraniana, ma solo una minoranza. I giovani non hanno nessuna fiducia nel governo, la paranoia verso l’Occidente non ha più nessuna presa popolare e sono sicuro che quest’ultima generazione così pratica, tecnologica, paziente e intelligente riuscirà senza alcuna violenza a imporre la propria volontà sul sistema.

Presumo che l'esilio sia ancora una ferita aperta per lei, come ha vissuto il contrasto tra la fuga a piedi nelle montagne e il glamour del Festival di Cannes?

L’Iran mi manca ogni giorno, l’esilio non è stata una scelta facile, ma ho capito che la mia priorità assoluta era continuare a raccontare storie senza chiudermi in uno status di vittima. Il Festival di Cannes mi ha permesso di liberare un film che è stato estremamente complicato da gestire, e che non avrebbe mai visto la luce senza il sostegno prezioso dei miei collaboratori. Il glamour è per me una forzatura, ma mi ha permesso di far arrivare il film al più ampio pubblico possibile.

L’ha sorpresa il fatto che la Germania abbia scelto di essere rappresentata dal suo film agli Oscar?

Sì, molto. In Iran i film devono sempre essere approvati dalla censura, non si può girare nulla senza permessi ufficiali quindi, visti miei precedenti, figuriamoci se venivo selezionato dal mio Paese per concorrere agli Oscar. Sono davvero commosso e sorpreso che una cultura diversa dalla mia sia così aperta a un'opera che viene da lontano. La Germania ha capito il valore umano e universale di questa storia ed è un bel segnale di speranza per i giovani iraniani che vivono intrappolati in un sistema soffocante e sterile.

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Come e quando è nata la sua passione per il cinema? Da piccolo aveva modo di vedere anche film non iraniani?

La mia passione è nata per caso da adolescente guardando la televisione. Avevamo un piccolo apparecchio in bianco e nero e fui folgorato da alcune immagini di un film che ho scoperto solo anni dopo essere L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog. All’epoca era molto difficile vedere film stranieri perché i VHS erano banditi, e quando riuscivamo a procurarcene ce li scambiavamo nascondendoli nelle mutande.

I rari film autorizzati che ho visto erano proiettati nei festival, lì ho scoperto alcuni capolavori di Tarkovsky o di Parajanov. In Iran c’è sempre stato un mercato nero di film stranieri, che vengono visti clandestinamente in casa, ma purtroppo queste visioni solitarie uccidono la vera esperienza del cinema che è un rito collettivo.

Da ragazzo i registi che mi hanno influenzato di più erano iraniani: Kiarostami, Makhmalbaf o Jalili. Non sono mai stato un fan dei film americani, preferisco registi come Kieślowski, i fratelli Dardenne o Ken Loach, che hanno in comune con il cinema iraniano la semplicità nel raccontare temi sociali molto importanti.

Si è mai chiesto che tipo di regista sarebbe stato se fosse nato e cresciuto in un Paese libero?

Non lo posso sapere ma mi piace molto lo sguardo caustico e provocatore di Ruben Östlund. Film come Forza Maggiore, The Square o Triangle of sadness si interrogano sulla società con una libertà e un’intelligenza che ammiro molto.

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