Fare un film sul calcio è sempre stato difficoltoso, complicato, rispetto alla facilità con cui la settima arte ci ha parlato di pugilato, basket, football americano o baseball.

Eppure sul grande schermo la magia del pallone, tutto ciò che rende quella sfera che rotola qualcosa di universalmente amato, ha trovato comunque il modo di esprimersi, di parlare di sé e delle speranze che è in grado di smuovere.

Film cult

Impossibile non partire dall’epico e avventuroso Fuga per la Vittoria di John Huston del 1981. Liberamente ispirato alla tragica “partita della morte” svoltasi nel 1942 tra prigionieri ucraini e ufficiali tedeschi, il film era creato a maggior gloria del divo Sylvester Stallone. Al suo fianco, oltre a Michael Caine, anche un incredibile numero di assi del pallone di quegli anni: l’ex capitano inglese Bobby Moore, Osvaldo Ardiles, Kazimierz Deyna, Paul Van Himst, John Wark ma soprattutto lui, “O’ Rey”, Pelé, che fino a pochi anni prima esportava nel suo finale di carriera il calcio negli Stati Uniti.

Fu però grazie a un piccolo cult come Sognando Beckham di Gurinder Chadha, nel 2002, che il “soccer” (come lo chiamano gli americani) diventò ancor di più uno sport globale, e soprattutto patrimonio anche femminile. La coraggiosa Jess, ragazza indo-britannica di origine punjabi, cercando di imitare il grande divo del pallone britannico, scopriva l’amicizia, l’amore, ma soprattutto l’emancipazione e il diritto di decidere della propria vita.

Il calcio come strumento attraverso il quale superare le differenze, nonché ispirazione per la propria realizzazione. Tale elemento sarebbe stato ripreso nel 2009 da Ken Loach in Il mio Amico Eric. La disperata vita di un postino inglese depresso e sfiduciato, rivoluzionata dall’apparizione di un motivatore d’eccezione: il grande Eric Cantona. L’indimenticato condottiero dello United di Alex Ferguson convincerà il protagonista a riconquistare la propria dignità e a fare i conti con il proprio passato.

Gag e realismo italiani

E l’Italia? Da noi il calcio è una religione si sa. E come per la religione, quasi tutti i migliori prodotti hanno cercato di toglierne sacralità e sminuirne importanza.

Lino Banfi deve sicuramente gran parte della sua popolarità a Oronzo Canà, l’irresistibile e macchiettistico protagonista de L’allenatore nel pallone di Sergio Martino, parodia dei tanti “profeti” armati di vocabolario improbabile e tattiche bislacche, che hanno reso sovente ridicolo il dio pallone.

A quegli anni Ottanta in cui il nostro campionato era il più bello del mondo, appartiene anche Eccezzziunale... veramente di Carlo Vanzina, che dalla panchina spostò l’attenzione ai tifosi, a quella massa eterogenea e brulicante, che riempie appassionata le curve da sempre.

Il Diego Abatantuono di inizio carriera, si esibiva in un trio di personaggi ridicoli ed esagerati. Tra risate e gag, si scorgeva in fin dei conti il placebo che essere ultras, tifosi, rappresenta ancora oggi per tante esistenze disgraziate.

Quell’atmosfera grottesca, a metà tra esagerazione e realismo, è stata ripresa nel 2013 dal brillante L’arbitro di Paolo Zucca, dove Stefano Accorsi interpreta un corrotto e arrivista direttore di gara, costretto a barcamenarsi in un derby della polverosa e assolata terza categoria sarda. Al centro, il campanilismo, i piccoli sogni quotidiani legati a quella sfera, gli italiani che prendono sul serio solo quei novanta minuti ma nulla degli ideali che essi rappresentano.

Anche più cinico era stato Pupi Avati, nel 1987. Il suo Ultimo minuto vedeva nel Walter Ferroni di Ugo Tognazzi uno scafato direttore sportivo intento a salvare ciò che poteva della bellezza del calcio, dei sogni che esso regalava, contro il marcio delle scommesse clandestine, dei presidenti vanagloriosi, dei corruttori.

Nel nome di “Ago”

Al netto di risate e tormentoni diventati iconici, di personaggi strampalati ed eccessivi, il miglior film sul calcio mai partorito dal nostro paese, rimane un dramma doloroso e viscerale, che ancora oggi molti indicano come la migliore opera cinematografica di Paolo Sorrentino.

In quel 2001, ne L’uomo in Più, Toni Servillo e Andrea Renzi vestivano i panni di due uomini accomunati dallo stesso nome, Antonio Pisapia, ma divisi da natura, carattere e destino.

Cantante di successo libertino e arrogante, travolto da uno scandalo sessuale il primo, calciatore timido, onesto e coerente il secondo. Sorrentino per il personaggio di Servillo si ispirò al Califano (che poco gradì la cosa all’epoca), donandoci una figura contorta ma affascinante.

Tuttavia fu l’omaggio alla nobile figura di Agostino Di Bartolomei che colpì pubblico e critica, grazie alla misurata performance di Renzi. Come “Ago”, anche il suo Antonio Pisapia si sarebbe infatti tolto la vita nel finale, travolto dal dolore, dalla solitudine, da un mondo che lo respingeva come respinse l’indimenticato gran capitano della Roma.

Il futuro regista premio Oscar per La Grande Bellezza, fu spietato nel creare un’istantanea del calcio italiano come un gorgo amorale e senza pietà, dominato da doping, scommesse clandestine e personaggi squallidi.

Gli anni Ottanta dell’Italia da bere, drogata di pallone e successo, spietata e corrotta, ritornarono in vita in questo film dolente e malinconico, elegante e attualissimo nel ricordarci che su quel campo di pallone, come nella società, questo paese ha sempre emarginato i migliori e i più onesti.

Il calcio che fu

«It’s Coming Home» cantano i tifosi inglesi in questi giorni a Euro 2021. Niente più vittorie dopo il mondiale casalingo del 1966 per loro, che il calcio lo hanno inventato, a cui hanno dedicato grandi film.

I migliori parlano del loro passato, del calcio che fu. Il maledetto United di Tom Hooper è in cima alla classifica. Brian Clough, uno dei più grandi allenatori di sempre, ha il volto affilato e smargiasso di Michael Sheen, che ci parla dei 44, terribili, giorni in cui guidò il Leeds United, prima della gloria delle due coppe campioni conquistate con il Nottingham Forrest.

Il calcio come confronto tra personalità, arte del comando e visione. L’Inghilterra classista e conservatrice, il vecchio calcio inglese rissoso e statico, vennero spazzati via da nuovi uomini e nuove idee, di cui Clough era perfetto ambasciatore.

Il confronto tra la modernità e il passato, è connesso anche a un piccolo grande film, antecedente il dominio della Premier League da parte dei petrodollari russi ed asiatici: Jimmy Grimble. Quindicenne timido e bullizzato, Jimmy coronerà il suo sogno di diventare calciatore del Manchester City grazie a due scarpini magici e all’aiuto di una misteriosa vecchietta.

Cult iconico, rappresenta un sentito abbraccio alla cultura e ai valori del football della fu working class inglese, quando questo sport era patrimonio dei quartieri popolari, dei pub.

Diretto da John Hay, risale all’anno 2000, quando il City era ancora il club minore di Manchester, non il monumento allo folle sperpero di miliardi di sterline voluto da Pep Guardiola e dallo sceicco Al Nahayn.

La storia del Manchester City è tornata alla ribalta anche due anni fa, grazie a The Keeper di Marcus H. Rosenmüller, inerente alla straordinaria vita di Bert Trautmann. Paracadutista tedesco sopravvissuto al secondo conflitto mondiale, Trautmann, tenuto prigioniero in Inghilterra, si ritrovò infine a difendere la porta del City per quindici anni. Diventato idolo dei tifosi, a fine carriera fu nominato ufficiale dell'ordine al merito di Germania e nel 2004 addirittura ufficiale dell'ordine dell'Impero britannico per le sue imprese sportive.

Il calcio che diventa balsamo per le ferite causate dalla guerra e dalla vita, base su cui ricostruire anime deragliate e distrutte, opportunità per unire popoli divisi da odio e sangue. Ma in fondo, è anche per questo che è lo sport più bello del mondo.

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