Sull’ultima volta Francesco Guccini ha scritto una canzone. Perché riconoscere la prima è facile, ce ne accorgiamo tutti. Ma sapere che quella sarà l’ultima volta che facciamo qualcosa è un privilegio raro. Un privilegio che si è concesso Domenico Pozzovivo, lucano di Montalbano Jonico, 41 anni compiuti a fine novembre, il corridore più vecchio al via del Giro d’Italia.

«Mi sembra ieri che ero il più giovane del gruppo, al mio primo Giro. Non avrei mai pensato che vent'anni dopo sarei stato ancora qui. Adesso le carriere si stanno accorciando, quattro o cinque anni fa non ero considerato neanche esperto, e di colpo sono diventato vecchio».

Questo Giro sarà l’ultimo per lui. Il diciottesimo, ma sei non li ha finiti, «perché il Giro non ha fatto eccezione, ha seguito l’andamento di tutta la mia carriera, tante cadute, tanti stop sul più bello». Cadendo cadendo si è rotto quasi tutte le ossa, «quante non lo so, avevo detto che a venti avrei smesso di contarle», ogni volta ha dovuto fare strade lunghissime e dolorose per tornare. Dopo l’investimento in Calabria dell’agosto 2019 i medici gli avevano detto che non avrebbe mai più pedalato, neanche per andare a comprare il pane. Ma lui li ha smentiti.

«Io oggi sono un privilegiato, posso rivolgermi al privato, ho le cure migliori, senza bisogno di aspettare. Quella volta però arrivai al Pronto Soccorso in codice rosso, quasi nero. E in effetti la sanità calabrese è quella che si racconta anche nei documentari, nelle inchieste: purtroppo è molto deficitaria. La situazione è la stessa di quando ero ragazzo, non è accettabile. Se avessi dovuto affidarmi alla sanità pubblica praticamente avrei smesso di correre già nel 2007, quando mi sono rotto l'omero».

Le lauree, la musica, il meteo

È un giro nell’Italia molto particolare quello che ci fa fare questo vecchio corridore lontano dagli stereotipi. Meridionale (molto più del Giro, che quest’anno ha il suo punto più a sud a Pompei) in uno sport tradizionalmente riservato ai centro-settentrionali. Una prima laurea in Economia Aziendale, la seconda arriverà a ottobre in Scienze Motorie, con una tesi sugli intervalli ad alta intensità nella preparazione. Pozzovivo ha studiato musica, suona il pianoforte con talento. In un mondo di tivù seriale, lui guarda preferibilmente i lunghi talk show in cui si parla di politica. Appassionato di meteorologia, «mi è sempre piaciuto osservare i fenomeni naturali, ho cominciato a tenere un diario con le temperature massime e minime da ragazzino, intanto davo una mano a mio padre, che fa l’agricoltore, coltiva cachi e arance. Poi ho trasferito tutto anche nel mio lavoro, noi corridori siamo sempre in balia del tempo, sapere cosa ti aspetta ti aiuta».

Il 2005, l’anno del suo debutto al Giro, fu quello dell’uragano Katrina, oggi gli eventi atmosferici estremi sono assai meno rari. «Mi fa un po’ rabbia che si riesca ancora a negare l'esistenza del cambiamento climatico. Finché tutti non prenderanno coscienza pienamente del problema è arduo immaginare un’inversione della tendenza. Anche perché la presa di coscienza deve avvenire adesso, si stanno già innescando dei cambiamenti irreversibili. Faccio uno sport che mi porta a contatto con le montagne e con i ghiacciai e la mia routine mi fa andare nello stesso posto tutti gli anni nello stesso periodo: è evidentissimo l'arretramento di tante lingue glaciali che solo quindici anni fa erano molto più avanzate. E le situazioni di meteo estremo sono molto molto più frequenti».

Il servizio militare e l’individualismo

Non è l’unico aspetto ad essersi estremizzato negli ultimi vent’anni. Nel 2005 in Italia finì la leva obbligatoria. «Non ho fatto il servizio militare: ero all’università, chiesi il rinvio, poi arrivò l’abolizione. Vent'anni dopo sento parlare di esercito europeo e di guerra in Europa, per uno della mia generazione era un pensiero lontanissimo. Mi fa paura perché la capacità distruttiva delle armi che sono in mano a tante nazioni è immensa. Avendo poi in giro così tanti dittatori, gente che con un niente può decidere il destino dell'umanità, è normale avere paura. Le tensioni sono altissime e basta una scusa qualsiasi dal punto di vista diplomatico per far partire l'escalation».

Del suo primo Giro ricorda «quasi tutto, praticamente è come se lo avessi corso ieri. Dal prologo sul lungomare di Reggio, in quello che D’Annunzio definì il chilometro più bello d'Italia, all’abbandono per ferite nella penultima tappa, a quasi 30 chilometri dall'arrivo, al Sestriere. La feci tutta in lacrime e alla fine salii in ammiraglia, una scelta di dignità perché magari con qualche escamotage, attaccandomi a una borraccia, sarei riuscito a finirla. Però non era nella mia indole».

La sua indole è arrivare in fondo, alla fatica come al dolore, studiare tutte le possibilità, non lasciare niente di intentato. «Quella è la vita vera. Oggi qualcuno la confonde con i social, c’è gente che a un certo punto non riesce a distinguere il vero dal virtuale. Temo che questo favorisca quella sensazione di invincibilità o comunque di onnipotenza che poi porta a certi atteggiamenti in gara, che non aiutano la sicurezza. L’individualismo tocca anche lo sport, e anche il modo di raccontarlo ha le sue colpe: si innalzano altari a chi fa l'impresa, trascurando il lavoro di squadra e tutto quello è stato necessario per costruire quella situazione».

L’emigrazione e il divario con il sud

Due volte quinto al Giro, la prima nel 2015, l’anno dell’Oscar alla Grande Bellezza di Sorrentino. «La bici, e soprattutto il Giro d'Italia, ti fa vedere quasi esclusivamente quello dell’Italia, la grande bellezza. Ho corso spesso in squadre straniere e ho visto colleghi davvero estasiati di fronte allo spettacolo dei luoghi, all'ospitalità, al cibo, al clima che c'è intorno al Giro d'Italia. È quasi un mondo ideale, almeno lì facciamo bella figura. Ma sappiamo benissimo che quando passa il Giro le strade vengono sistemate, le aiuole tagliate, tutto un po’ truccato. Non mi sono mai illuso che sotto quel tappeto non ci fosse un po’ di polvere».

In questi vent’anni sono state 600.000 le persone, la maggior parte giovani, che hanno lasciato l'Italia per non tornarci. «Da un lato è un processo quasi inesorabile, oggi c'è molta meno stanzialità. E le leggi economiche fanno sì che anche le persone, come le merci, si spostino dove c'è più convenienza. Io ho vissuto il distacco con molta partecipazione, quando vedo una trasmissione televisiva che parla della mia terra sono lì incollato a guardarla. Quasi mi commuove quella mancanza di risorse che ci costringe a spostarci per inseguire i nostri sogni. Fa male».

Siamo andati su Marte, ma non riusciamo a colmare il divario tra Nord e Sud. «La mia prima tesi l’ho fatta proprio sull'origine della questione meridionale. Da un certo punto di vista questa differenza secondo me è anche un po’ la ricchezza dell'Italia: non voglio essere frainteso, ma quello che manca al Nord iperproduttivo ed efficiente viene in parte completato dal Sud meno organizzato ma più fantasioso e creativo».

Il futuro

Su tutto questo si abbatterà l'intelligenza artificiale, che nei prossimi dieci anni è destinata a sostituire l’uomo in molte attività e servizi. «Immagino che renderà molto più standardizzata la nostra vita, con meno fantasia. Bisognerà anche un po’ reinventarsi certi lavori che adesso diamo per scontati ma a breve verranno rimpiazzati dall’intelligenza artificiale. Il lavoro di scrivere, di raccontare lo sport potrebbe cambiare. Ma se uno ha la passione e l’abitudine di leggere non accetterà mai una cronaca scritta da un'intelligenza artificiale. Il problema piuttosto è che a leggere siamo rimasti in pochi».

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