Stavano per mettersi a fare quella loro danza indigena e allora a me balenò un’idea: mi misi a cantare Land of My Fathers, mi seguirono i compagni e tutto il pubblico e fu una meravigliosa sinfonia di cuori e quando si dice e si ripete Wlad sembrava di essere in chiesa, un monumento di voci, e dopo lessi che avevo inventato qualcosa: un inno non era mai stato cantato dal pubblico».

L’intervista possibile con lo spettro gentile di Teddy Morgan, il gallese che non permise ai primi All Blacks di stamparsi addosso l’etichetta di Invincibili (sarebbe toccata a quelli del ‘23) rivela che la haka era già danzata nel 1905: esiste persino un breve filmato, a fotogrammi accelerati, che mostra Dave Gallaher e i suoi magnifici ragazzi impegnati in una rapida versione, senza le spettacolarità obbligate d’oggi.

Danzavano anche i Natives, i neozelandesi che per primi visitarono le isole britanniche tra il 1888 e l’89: pare che per il rito indossassero mantelli bianchi (non di piume di kiwi, come i grandi capi maori) e berretti neri che venivano lanciati in aria.

La haka è una linea di confine e un patrimonio comune in una terra colonizzata due volte, attorno all’anno 1000 dai polinesiani che seguirono il dio squalo per approdare a Aotearoa, la lunga nuvola bianca, e 800 anni dopo dagli scozzesi e dagli irlandesi in cerca di fortuna e opportunità. Quelli che noi conosciamo come maori trovarono una terra che sembrava un giardino della creazione, vuoto, lussureggiante, popolato di giganteschi struzzi, i moa, che essendo una riserva in movimento di eccellente carne, furono divorati in pochi secoli.

Quando arrivarono i pakea, i bianchi, non è che la situazione fosse molto cambiata: i maori erano cacciatori, pescatori, raccoglitori, non avevano costruito città di pietra, continuavano a vivere un’esistenza da paradiso perduto. Come per tutti gli impatti, i bianchi causarono cambiamenti e la nascita di nuovi desideri: il più impellente era legato al possesso del moschetto Enfield, molto comodo nelle guerre tribali che insanguinarono le prime due decadi del XIX secolo.

La storia

I pakea prima incuriosirono e poi preoccuparono per quella loro fame mai sopita di terre da riempire di strani quadrupedi coperti di lana. In questo senso, le vicende della Nuova Zelanda anticiparono, in scala ridotta, quel che divenne leit motiv della storia americana. «Una sola promessa mantennero, quella di toglierci le nostre terre», disse prima di morire Cavallo Pazzo, libero sino al momento di spirare. Gli inglesi sono stati sempre più abili degli sbrigativi americani e così, già nel 1840, provarono a evitarsi aspri problemi con il trattato di Waitangi che riconosceva pari diritti ai maori in cambio del riconoscimento della sovranità britannica.

Quella firma portò a una continua erosione dei territori in mano alle tribù, a un tentativo di riscossa attraverso un’autorità centrale (Te Wherowhero venne incoronato con il nome di Potatau I) e a tre guerre nelle regioni di Taranaki e di Waikato che segnarono la definitiva supremazia dei nuovi padroni senza la politica di aggressione e di genocidio perpetrata negli Usa.

Con tutti i limiti, la Nuova Zelanda è il primo esempio di paese in cui una cultura originaria non viene spazzata (o umiliata come in Sudafrica), finendo per convivere, per dare un contributo culturale, per dar vita a una rivalutazione e ottenere pari dignità formale: un segno è il bilinguismo nell’inno, God defend New Zealand.

A questo processo hanno contribuito personaggi come George Nepia, leggendario giocatore, e il sottotenente Moana-nei Akika Ngarimu che meritò la Victoria Cross cadendo in Tunisia nel marzo del ’43 o gli uomini del 28° battaglione maori, reclutato a Nelson, che si coprì di gloria a Montecassino lasciando molte tombe su quelle balze crudeli.

Il rito

In Maori Games and Haka Alan Armstrong ha scritto che quella danza è una composizione suonata con molti strumenti: le mani, i piedi, le gambe, il corpo, la voce, la lingua, gli occhi. Tutto serve per lanciare la sfida, dare il benvenuto, mostrare esultanza, dimostrare fierezza e disprezzo. «Batti le mani sulle cosce, sbuffa con il petto, piega le ginocchia, lascia che i fianchi le seguano, pesta i piedi più forte che puoi», citazioni dalla haka più famosa, la Ka-Mate, eseguita con ripetuti pukanu (occhi dilatati) e whetere, lingua spinta all’inverosimile fuori dalla bocca.

Più o meno a 100 anni dalla danza di Cardiff e dalla reazione corale dei gallesi canterini, i Tutti Neri diventati Icone del gioco, simboli, punti di riferimento di un merchandising globale, divi senza divismo come bagaglio appresso, hanno avuto in dono una haka moderna, aggressiva, creata da Ngati Porou Derek Lardelli e il 28 agosto 2005, nella “Casa del Dolore” di Dunedin il mondo vide e ascoltò per la prima volta la Kapa-o-Pango (traduzione, i Guerrieri Neri) guidata da Tana Umaga che nella sua foga pareva quasi volesse stracciarsi di dosso la divisa per offrirsi nudo e selvaggio allo scontro con gli avversari storici, i sudafricani.

Rispetto alla classicità tribale della Ka-Mate, Kapa-o-Pango è un prodotto moderno, concepito per appuntamenti contro le squadre più temute: «Il nostro dominio, la nostra superiorità trionferà e si imporrà su tutti la Felce d’Argento», è un estratto. Non sono versi impressionanti. Impressionante è quella testuggine di corpi, è quell’atteggiamento, è quel gesto finale che significa sgozzamento. Da loro, dai Neri, da quelli che prendono sempre alla gola, non c’è da attendersi pietà.

Come si risponde

C’è chi ha risposto alla haka voltando le spalle (l’Italia, finita nel 2007 sotto di 76 punti), c’è chi ha ridacchiato (l’Inghilterra), c’è chi riesce a rimanere impassibile, ed è il Sudafrica che con i neozelandesi ha scritto una lunga “chanson de geste” senza quartiere. L’ultima haka prima di andare in campo – e buscarle dalla Francia – gli All Blacks l’hanno danzata tra le lapidi bianche di uno dei tanti cimiteri della Somme dove pakea bianchi e maori andarono a combattere una guerra lontana ed estranea, senza mai tirarsi indietro.

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